Il maestro di Vigevano

LUCIO MASTRONARDI: Il maestro di Vigevano,  Einaudi, Torino 1962

 

L’ITALIA CHE CAMBIA

 

L’Italia contemporanea sta vivendo una fase di vistosi e rapidissimi cambiamenti, tanto che all’uomo comune sembra talvolta di trovarsi all’interno di una materia fluida in continuo assestamento, un blob di cui non  conosce la struttura né i contorni, perché qualsiasi illusione di comprensione è immediatamente smentita da un nuovo fenomeno, una nuova configurazione che si sovrappone ed è poi a sua volta subito superata. È il corso della storia e della civiltà, certo: così è sempre stato e sempre sarà. Ma ci sono momenti in cui questo corso sembra subire un’accelerazione incontrollabile: come oggi, appunto. E non è una situazione sempre piacevole. Ci sono aspetti che talvolta ci stupiscono, talvolta ci preoccupano, e sempre danno, se non proprio la percezione di un fallimento, almeno la sensazione di essere fuori luogo, disadattati, proiettati quasi a nostra insaputa in un mondo che non ci appartiene, che non riconosciamo più.

Con sguardo diverso e con le diverse chiavi espressive che a ciascuno risultano più congeniali, diversi scrittori (talvolta presenti anche nelle letture dell’Ora del Tè: Varesi e Bartolomei, per esempio) hanno naturalmente colto questa realtà e la rappresentano nei suoi aspetti più magmatici: descrivono l’evoluzione della nuova Italia, le trasformazioni della società, del lavoro, dei valori di riferimento; analizzano i meccanismi politici,  i nuovi giochi di potere, di forza e di convivenza. E, nello stesso tempo, raccontano anche il disagio esistenziale di tanti che, pur consapevoli dell’impossibilità di tornare indietro, guardano con ansia al presente e più ancora al futuro. Perché la realtà appare senza controllo. Perché la loro stessa vita  gli è sfuggita dalle mani e non se ne sono neanche accorti.

 

Gli anni Sessanta. La letteratura del cambiamento

L’approccio ad alcuni di questi testi mi ha richiamato alla mente  un altro periodo  della nostra storia – non molto lontano nel tempo – in cui l’Italia ha subito radicali cambiamenti socio-economici  senza essere totalmente in grado di assorbirne le conseguenze. Sono stati gli anni Sessanta del Novecento, gli anni del boom, venuti dopo una faticosa ricostruzione post-bellica, quelli in cui il Paese, ancora prevalentemente rurale e con vaste zone di povertà e arretratezza, si è avviato definitivamente verso l’industrializzazione, e con questa verso la modernizzazione e il benessere. Un periodo per lo più valutato positivamente, quindi, specialmente per la testimonianza di coloro che all’epoca, per età e condizioni, si abbandonavano all’euforia della novità.

Invece, ad una riflessione più matura, non tutto si è poi rivelato davvero entusiasmante come appariva ad uno sguardo immediato, e non solo perché è da lì che si sono instaurate le premesse più favorevoli alle speculazioni e agli scandali che in pochi anni avrebbero compiuto lo scempio selvaggio del nostro Paese, quello scempio che è tuttora in corso e a cui quotidianamente assistiamo impotenti. Infatti l’Italia del neocapitalismo tecnologico si è mostrata sin dall’inizio  squilibrata e impreparata a gestire adeguatamente  innovazioni capaci di stravolgere il modo di vita della gente e rovesciare i precedenti assetti umani e territoriali.  E subito intere  categorie di lavoratori e di soggetti sociali si trovano a vivere in prima persona gli effetti di spaesamento derivanti da quegli squilibri.  Naturalmente il mondo intellettuale non poté non avvertire quanto stava avvenendo.

In quegli anni  la personalità di spicco, che assumerà un ruolo fondamentale di osservatore e critico della nuova realtà italiana, è Elio Vittorini. Sensibilissimo a tuttele sollecitazioni del momento storico egli non manca di interrogarsi anche sugli inevitabili adattamenti subiti dalla figura dell’intellettuale nella nuova società. Con Calvino fonda e dirige fino al 1967 la rivista  “Il Menabò” e ne fa lo strumento di registrazione e di critica dell’Italia in movimento. La rivista cataloga, analizza, interpreta, affronta problematiche in chiave critica nel solco della tradizione, ma anche grazie all’apporto di  discipline relativamente nuove nel panorama italiano, quali l’antropologia culturale, la sociologia, lo strutturalismo. Vittorini ritiene infatti che non sia sufficiente la semplice acquisizione di nuovi contenuti proposti dall’osservazione della mutata realtà, per consentire alla letteratura di mantenersi vitale all’interno della società e della vita nazionale. Essa deve rendersi capace di cogliere e rappresentare le trasformazioni antropologiche profonde ormai in atto, nonché di assumerle all’interno del proprio modo di guardare. Deve insomma trasformarsi essa stessa, vedere il mondo in una prospettiva diversa e adottare tecniche rappresentative e linguaggi adeguati a questa nuova visione.

Sono molti gli intellettuali  (Eco, Calvino, Volponi) che partecipano al dibattito aperto dalla rivista vittoriniana e si adoperano per fornire spunti ad una letteratura industriale, facendosi portavoce dell’ utopia  di una letteratura organica alla civiltà industriale non perché parlasse realisticamente dell’industria, della fabbrica e degli operai, ma perché nello sforzo di impregnare della civiltà industriale ogni e qualsiasi disciplina, fosse “pienamente all’altezza della situazione in cui l’uomo si trova di fronte al mondo industriale”. Un’utopia fallita nella realtà della politica e in quella dell’arte, ma che allora, per alcuni anni, fu certo, intellettualmente e moralmente, il punto più alto raggiunto dalla cultura italiana. (La citazioneè tratta dal volume di Giuseppe Petronio Il piacere di leggere, Milano, 1997, p. 358).

 

Lucio Mastronardi

A Vittorini si deve anche la fortuna critica di Lucio Mastronardi, scrittore originalissimo, a mio parere oggi ingiustamente sottovalutato e meritevole di un’attenta rilettura.

Di fronte alle sollecitazioni di Vittorini per una letteratura che sappia trasformarsi per vedere il mondo in una prospettiva diversa e adottare tecniche rappresentative e linguaggi adeguati a questa nuova visione, Mastronardi fornisce una soluzione espressiva che, puntando sulla deformazione straniante e talvolta grottesca del mondo raccontato, può intendersi come una valida, personalissima risposta a questa ricerca.

Lo scrittore era nato a Vigevano nel 1930 da una famiglia piccolo borghese e in ambiente provinciale, destinato successivamente ad essere percorso da quel balzo industriale che negli anni Sessanta si tradurrà in un vero e proprio boom economico, a prezzo però, come si è detto, di molte contraddizioni. E’ la realtà che più tardi Mastronardi racconterà nei suoi romanzi, una realtà da lui conosciuta anche attraverso l’attività di maestro, cui si dedica, sulle orme dei genitori, dapprima in contesti umani fortemente caratterizzati (la campagna, il carcere, i corsi serali) e poi nella scuola elementare della sua cittadina.

Le prime prove letterarie sono del ’56, con una serie di racconti pubblicati su vari giornali locali, ma l’esordio vero e proprio si ha nel 1959, quando sul primo numero del “Menabò” esce il romanzo, Il calzolaio di Vigevano, con una positiva presentazione dello stesso Vittorini; questi nel ‘62 pubblica nella collana einaudiana “I gettoni” anche il secondo romanzo di Mastronardi Il maestro di Vigevano (da poi cui Elio Petri ha tratto un film con Alberto Sordi).  Seguirà nel ’64 Il meridionale di Vigevano, che completa la trilogia intesa a rappresentare, talvolta anche in forme metaforiche e parodistiche, la provincia italiana ossessionata dal mito del denaro. E’ un ambiente culturalmente povero, becero, preda della stupidità e dei pregiudizi. Tra questi, quelli antimeridionalisti, diffusi anche nel mondo scolastico (dove lavora il protagonista del secondo romanzo, in cui sarebbe legittimo aspettarsi una maggiore apertura mentale.

In queste opere respira un’atmosfera di disagio e fallimento che assume i toni talvolta del grottesco e dello straniamento quasi patologico, dai quali non è assente certamente una componente autobiografica (Mastronardi morirà suicida nel ’79, dopo la sconsolata presa di coscienza che al mondo “c’è troppa desolazione”). Vigevano, centro calzaturiero di primaria importanza, terra di “scarpari” arricchiti o aspiranti tali, diventa così il microcosmo che allude ad una situazione più ampia e generalizzata.

Molto interessanti sono le scelte formali adottate dall’autore, da quelle strutturali del Maestro, a quelle linguistiche, pregnanti soprattutto negli altri due testi. Si nota infatti nel Calzolaio l’uso “funzionale” del dialetto, che diventa impasto di dialetti diversi nel Meridionale, dove la difficoltà di integrazione fra immigrati del sud e “locali” viene resa  con efficacia dalla trasposizione sul piano del plurilinguismo espressivo. Se proprio per queste scelte linguistiche Mastronardi è stato accostato a Gadda,  Gianfranco Contini (nel Volume Letteratura dell’Italia unita, 1968)  ha riconosciuto  nel gruppo dei neorealisti, intesi in senso lato (Fenoglio, Calvino, Pavese, Pasolini)  i possibili antecedenti sia formali che ideali, motivando l’interpretazione di un Mastronardi “neorealista” con il rifiuto da parte dell’autore dell’arte per l’arte, essendo la sua scrittura “al servizio di un  preciso risentimento ambientale e interesse sociale”.

 

Il maestro di Vigevano,  ovvero la provincia come microcosmo

Il romanzo racconta – in forma diaristica e in prima persona – le vicende di Antonio Mombelli, un maestro quarantenne che vive a Vigevano con la moglie e il figlio Rino (su cui si dall’inizio aleggi il sospetto che non sia suo), arrabattandosi quotidianamente nel grigiore di una vita piccolo borghese, alle prese con i problemi economici e di adattamento ad un lavoro umiliante e privo di prospettive.

L’ambiente scolastico, retrivo e legato ad alienanti meccanismi gerarchici e burocratici, è rappresentato con impietoso sarcasmo nei suoi aspetti più squallidi, attingendo a vertici tragicomici nella figura del direttore-ispettore, saccente ed ignorante. Questi,  con la sua pedanteria e il gusto di  sfoggiare una  presunta superiorità sugli insegnanti, diventa il simbolo non soltanto di una specifica categoria  lavorativa, ma  dell’intera società contemporanea e forse della vita stessa: qui, infatti, per l’autore  le relazioni interpersonali  sono dominate solo  da volontà di sopraffazione e da diffidenza reciproca.

Nei confronti di quest’ambiente Antonio Mombelli ha comunque un atteggiamento ambiguo: in parte vi si adatta, condividendone, sia pure amaramente, gli ideali di decoro e perbenismo (vedi i suoi tentativi di avanzamento nella carriera), ma è pure consapevole della bassezza e dell’inutilità del tutto. Ne dà quindi una descrizione dissacrante, stravolta, grottescamente autolesionista, assumendo pose talvolta ribelli, ma di una ribellione folle, disperata, destinata comunque al fallimento. Si veda, ad esempio il capitolo in cui egli utilizza la sarcastica definizione di “catrame” riferita a tutto quanto nella via sua e altrui sa di falso e di convenzionale: i buoni sentimenti dei benpensanti, la retorica, il desiderio di decoro, persino le buone maniere, viste da Antonio come nauseanti manifestazioni di ipocrisia.

Consapevole della propria diversità rispetto alla maggior parte della persone che lo circondano, sa che  il metro di questa diversità è dato dalla considerazione del denaro, cui in ultima analisi va ricondotto l’attivismo dei concittadini. Ma in realtà, con tutta la sua lucidità intellettuale, la sua ironia corrosiva, il suo spirito anarcoide, Antonio è un “vinto”, sia nella sua collocazione sociale di provenienza, sia, a maggior ragione, nel contesto della Vigevano neoindustriale in cui vive. Perché quello è un mondo frettoloso, spietato, avido e amorale, cui egli non appartiene e che però ha il potere di travolgerlo, facendone crollare le poche certezze. Certezze fragili e forse mistificate in una patetica operazione di autoconvincimento, come quella della superiorità della cultura o della missione di educatore.

La crisi provocata dalla deformazione dei valori interessa anche gli affetti e i rapporti umani: la moglie Ada, attirata dal mito della ricchezza, non sopporta più la loro condizione di vita, ed insieme al fratello lo convince a tentare di “mettersi in proprio” come piccolo industriale. L’impresa però fallisce miseramente. Tutta la Ada si allontana affettivamente,  tradisce Antonio con un industrialotto e infine lo abbandona, dopo avergli rivelato che l’ha semvita familiare è ormai scardinata:pre ingannato e che il figlio Rino non è suo; lo stesso Rino, coinvolto in una rapina, finisce in casa di correzione. Rimasto solo, Antonio sprofonda sempre più nella sua desolazione.

Dal punto di vista stilistico e strutturale il libro si presenta come un tentativo originale di rendere attraverso la scrittura lo straniamento del protagonista, la sua rabbia impotente, la lucida follia della sua condizione psicologica.  Lo snodarsi del racconto non segue linearmente la successione dei fatti (la fabula), ma procede secondo analogie ed accostamenti che rispecchiano la logica deformante del protagonista. Nel tessuto narrativo sono inoltre inseriti spesso, in modo diretto, senza alcuna azione di filtro dell’autore o della voce narrante, tipi testuali diversi, come ad esempio la composizione che Antonio pensa di utilizzare per il concorso, o gli inserti “grafici” che riproducono le scritte alla lavagna, e così via. L’impianto tradizionale della narrazione viene quindi sovvertito e volutamente distrutto.

Anche la lingua adottata da Mastronardi mette in atto un analogo processo di disintegrazione dei canoni consolidati, perché l’uso del dialetto e di espressioni gergali, burocratiche o popolari non risponde semplicemente all’esigenza mimetica del parlato locale, ma ricrea una lingua nuova, dall’impasto complesso ed ibrido, che tende piuttosto a riprodurre l’assurda confusione della vita.

Un pensiero su “Il maestro di Vigevano

  1. Complimenti, davvero una bella analisi. Ora andrò a vedere una delle prime edizioni de Il maestro perché nella mia quegli inserimenti riguardanti ciò che è scritto alla lavagna non c’erano.
    Nella sua analisi, Mobelli è un personaggio positivo, dice che è un vinto, ma vinto da qualcosa, la nuova condizione della società, che resterebbe comunque al di fuori di lui. A me è sembrato che la meschinità dell’ambiente sia penetrata anche nel suo animo per cui lo sguardo grazie a cui sa vedere il catrame intorno a sé e in sé è sì uno sguardo eccedente, ma non perché sia arricchito da ideali più alti (come la missione educativa). Si tratta piuttosto di una sorta di vitalismo (ripete: sono qui e sono vivo) che non trova una vera via per esprimersi. Leggendo, mi sono chiesto da dove arrivi a Mobelli, ma in misura diversa anche a Mastronardi, questo strano vitalismo. Forse da Sartre?
    Grazie ancora

    Riccardo F

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