FAHRENHEIT 451 (GLI ANNI DELLA FENICE) di Ray Bradbury
Là dove si bruciano i libri si finisce per bruciare gli uomini
Heinrich Heine
Avvertenza: questo è un libro di parte, trattasi di appassionata apologia del Libro, scritta da un grande scrittore popolare, autore di ventisette romanzi e più di seicento racconti.
“Ray Bradbury 1920-2012 author of Fahrenheit 451″ è il suo epitaffio e la N.A.S.A. in memoria di “Cronache Marziane” ha dato il suo nome ad un sito su Marte.
Per tutti i buoni lettori per i quali i libri non sono soltanto un passatempo, per i devoti fedeli delle biblioteche di tutto il mondo è un Nume Tutelare, un vero Uomo-Libro che ha dedicato tutta la sua vita alla lettura e scrittura. “Con le biblioteche sono cresciuto. Io non credo nei colleges e nelle università, credo nelle biblioteche perché la maggior parte degli studenti non ha soldi. Quando mi sono laureato alla scuola superiore, è stato durante la Depressione e non avevamo soldi. Non potevo andare al college, così sono andato alla biblioteca tre giorni alla settimana per dieci anni…” – The NewYork Time 2009. Così divenne autodidatta e dall’età di dodici anni fino alla sua morte, eccetto i periodi di malattia, scrisse ogni giorno, con gioia creativa attingendo dalla sua fluente fantasia, meravigliosi doni.
Il libro in oggetto nasce come racconto lungo nel 1947 come “Bright Phoenix”, nel 1951 diventa romanzo breve di venticinquemila parole alla libreria Powell della UCLA, dove Bradbury scrive su una macchina da scrivere a gettoni, 10 centesimi per mezz’ora, costo totale 9,80 dollari, il titolo diventa “The Fireman”. Infine col titolo attuale appare a puntate nei primi tre numeri della patinata e “scandalosa” rivista Playboy nel 1953. Il libro risente del clima inquisitorio e censorio della Guerra Fredda, pervaso dalla paura per l’olocausto nucleare e dalle paventate infiltrazioni comuniste all’origine della crociata maccartista. L’ambiente culturale e dello spettacolo diventano obiettivi per “la caccia alla streghe” di John Edgar Hoover, direttore dell’FBI. Dal 1950 al 1959 Bradbury viene spiato per incastrarlo in qualche flagranza di reato, in quanto nella sua narrativa si ravvisava “una generale sfiducia nei confronti della società e, in particolare, negli Stati Uniti d’America”; e quindi “spaventa il popolo” proditoriamente riducendolo “in una condizione di paralisi”.
Il suo fascicolo numero 100-57129 si chiuse senza conseguenze ma in altri casi ci furono processi e liste nere. La situazione era talmente grave per la cultura che nel 1953 l’American Library Association dichiarò: “La libertà di lettura è essenziale per la nostra Democrazia”. Il film più illuminante in proposito è “Al centro dell’uragano”(1956) di Daniel Taradash ma tornando a Bradbury proviamo a capire come mai, “Fahrenheit 451” destò così tanta sensazione da diventare un “caso letterario”.
É la storia di una “conversione” in un ipotetico futuro, Guy Montag volenteroso Milite del Fuoco si dedica alla distruzione mediante fuoco dei libri, dichiarati fuori legge da un governo paternalista che prescrive la Felicità Collettiva. Al popolo vengono proibiti i libri perché fonte di dubbi ed ansie, si provvede al godimento del tempo libero attraverso intense attività sportive e TV à gogo, pervasiva ad ogni parete casalinga.
Un giorno Montag incontra Clarisse, un fanciulla vicina di casa, curiosa ed intelligente. Incontrandola ogni giorno, l’uomo considera la differenza tra lei e la moglie Mildred, dipendente dai farmaci psicotropi e reattiva soltanto agli stimoli televisivi coatti. L’eliminazione da parte delle autorità di Clarisse e l’autodafè volontario della signora Blake, tra la sua biblioteca clandestina, inducono Montag alla ribellione. Incomincia a trafugare e a leggere libri di nascosto, conosce l’anziano professor Faber con cui rimarrà in contatto anche a distanza con un auricolare radiotrasmittente e inizia la sua resistenza seminando libri nelle case dei più fanatici incendiari. Dopo aver recitato una poesia, davanti a sua moglie e alle sue amiche, causando un pianto isterico, Montag viene denunciato. Costretto a compiere la sua ultima missione a casa sua, brucia il suo tesoro, composto dai suoi ormai amati libri, stravolto continua la distruzione, brucia anche il letto nuziale, gli ormai insopportabili schermi televisivi e anche Capitan Beatty, suo diretto superiore e mentore. Dopo una fuga rocambolesca raggiungerà in una località sperduta, la comunità degli Uomini Libro, creature fuggiasche dedite alla trasmissione verbale dei libri preferiti.
FAHRENHEIT 451 di Francois Truffaut
“In bianco e nero tutti i film erano trasposti, non erano tutti belli, ma nessuno era volgare. Quando erano brutti c’era della brutta fiction ma malgrado tutto della fiction. Il colore ha portato, nei film non controllati, il nemico ereditario della fiction: il documentario, che seduce immancabile gli anti-artisti e coloro che hanno orrore della fantasia. Sono convinto che nella produzione a colori ci sono dei film che ci hanno lasciato indifferenti e che ci avrebbero appassionato in bianco e nero” – Francois Truffaut in “Il Cinema è…” a cura di Marco Della Nave (Nuova Pratiche Editrice, Parma).
Magari fossero coerenti con le proprie teorie, i critici diventati registi. Il primo film a colori del più brillante regista della “Nouvelle Vague” è un caso illuminante di contraddizione stilistica. La decade 60/70 del secolo breve fu prodiga di film di SF(fantascienza) straordinari: “Il Dottor Stranamore”(1963) e “2001: Odissea nello spazio”(1968) del geniale Stanley Kubrick; “Viaggio Allucinante”(1965) di Richard Fleischer e “Il Pianeta delle Scimmie” (1967) di Franklin Schaffner.
“Fahrenheit 451” (1966) spicca per rutilismo e infedeltà di trasposizione linguistica-mediatica. Già dai titoli di testa (panoramiche di antenne televisive virate in tutti i colori disponibili, giusto per provare l’effetto) recitati da una voce da rèclame, per far capire allo spettatore che siamo nel futuro distopico dove ogni lettera alfabetica è severamente vietata, la policromia dilaga profusamente. Durante tutto il film, le uniche lettere alfabetiche che si vedono sono quelle in caratteri latini, greci, cirillici e cinesi, stampati sui libri che si spiegano e si accartocciano divorati dalle fiamme censorie. Nel libro il proibizionismo letterario consente qualche eccezione legale, come nel caso delle norme ad uso del personale statale, per esempio nel libretto del regolamento dei Militi del Fuoco, si può leggere: “Si decise, nel 1790, di dare alle fiamme, nelle Colonie, tutti quei libri che si rivelassero influenzati dagli Inglesi. Primo Incendiario: Beniamino Franklin.
“Militi del Fuoco” attenzione non Vigili del Fuoco, perchè dalle loro pompe sgorga cherosene per incendiare non acqua per spegnere. Qui Truffaut centra l’obiettivo, realizzando un ribaltamento radicale della “figurina benevola” del pompiere, professione “eroica” che trova la sua esaltazione pittorica in John Everett Millais, nel quadro “Il salvataggio”(1855) dove si vede un pompiere inglese che soccorre una mamma e i suoi bambini da un incendio. Nel film l’automezzo rosso fuoco con a bordo otto piromani in nero con licenza d’incendio, che scorrazza all’impazzata per le strade deserte, è immagine che impressiona. Peccato che anche qualche altra auto, le pareti della Caserma, il pigiama di Montag, le indicazioni stradali, gli arredi, i vestiti femminili, i frutti sugli alberi, insomma il rosso regna quasi dovunque. I viraggi colorati in successione dell’incipit si replicano a metà film nella scena ferroviaria onirica di chiara matrice hitchcockiana, rinforzata a scanso di equivoci dalla musica stridula di Bernard Herrmann che si addolcisce solo nel finale lirico e arcadico in riva allo stagno tra le betulle.
Le licenze poco poetiche che Truffaut si prende nei confronti di Bradbury sono diverse e gratuite: la Clarisse, la vispa Musa teenager, che sveglia la coscienza del milite Montag (Oskar Werner che sprizza tetraggine mitteleuropea in divisa nera da accolito) non scompare come nel libro ma diventa un’agente provocatrice che ricompare nel finale liberatorio, ad ascoltare il libro memorizzato da Montag, “David Copperfield”.
Mildred, la moglie di Montag cambia il suo nome in Linda, ma perché i due personaggi femminili, cambiando solo il taglio dei capelli, sono stati interpretati dalla stessa attrice, Julie Christie? Altrettanto immotivata appare la profusione antiquaria nella casa dei Montag: telefono a parete con cornetta, clessidra, macinino del caffè a manovella, rasoio a mano libera con manico di tartaruga e “sabretache” da ussaro come portadocumenti e chincaglieria varia.
La sequenza aerea dell’inseguimento poi è di un ridicolo impareggiabile: quattro sgherri volteggiano come pipistrelli con due bombole sottobraccio in posizione orizzontale, eppure era già uscito nelle sale cinematografiche “Thunderball”(1965) di Terence Young, dove 007 volava impeccabilmente.
In conclusione il passaggio della Manica, e la regia in una produzione americana a Londra, è stata più una sfida audace (non parlava bene l’inglese, era il suo primo film a colori con un cast inglese) che una vittoria professionale. Ma non tutto il male vien col nuocere, nel 1977 Steven Spielberg lo chiamò ad Hollywood per fargli interpretare, lo scienziato Lacombe, in “Incontri ravvicinati del III tipo” , lasciandolo recitare in francese e pagandolo pure con 75.ooo dollari.