PICCOLO GRANDE UOMO (LITTLE BIG MAN) – 1964 – Thomas Berger
C’è molta gente superficiale che prende le cose alla lettera. Ma la vita di un uomo che abbia in sé qualche valore è una continua Allegoria. Solo pochi possono capire il mistero della sua vita. John Keats
Avventuroso romanzo western, biografia di un uomo di piccola statura e di grande coraggio e Storia alternativa e fortemente critica della Conquista del West e dello sterminio degli Indiani, Piccolo Grande Uomo racconta attraverso cinque mesi di colloqui registrati da uno studioso di storia americana, la lunga vita di Jack Crabb, ultracentenario ricoverato in ospizio.
Il memoriale inizia del 1852 all’epoca della “febbre dell’oro” quando il protagonista decenne, si trova per una serie di sfortunate circostanze (il padre crivellato di frecce e mamma, sorella e fratello dispersi) a far parte di una banda di Cheyenne (sedicenti Uomini Veri) nella prateria. Con l’aiuto di un saggio mentore, Pelle Vecchia, il piccolo Jack cresce forte e diventa un guerriero. Durante una razzia di cavalli ai danni dei Crow, il ragazzo uccide il suo primo nemico e salva la vita ad un bullo coetaneo, Orso Giovane, il quale avendolo precedentemente sottovalutato se ne risente. Per il suo valore Jack viene nominato Piccolo grande uomo e il suo prestigio aumenta. Ma la sua brillante carriera tribale viene interrotta durante un attacco della cavalleria americana, durante la quale rischia di finire sciabolato prima di essere riconosciuto e riportato alla civiltà. Dopo questa “educazione selvaggia” iniziano per l’orfano le tribolazioni della “rieducazione civile”, affidato alle cure di un religioso sessuofobo e ghiottone e della sua giovane e voluttuosa moglie, egli si innamora della mammina adottiva, senza speranza, poiché ella si sollazza fuori dal talamo.
Qui inizia per il giovanotto un periodo di accidia e deboscia, abbandonata la sicurezza domestica diventa avventore di saloons e bordelli. Finiti i soldi inizia a viaggiare in lungo e in largo oltre la Frontiera, incontrando personaggi entrati nella Storia del West come Kit Karson, Buffalo Bill, Wyatt Earp, Calamity Jane e Wild Bill Hickok e semplici comparse sulle quali la Storia è passata come un rullo compressore come suo fratello Bill, spacciatore di intrugli alcolici agli indiani buoni, che si trascinano intorno ai forti vendendo di tutto anche la loro dignità o come la sorella Caroline, sempre stata fuori di testa ma ormai talmente grave da essere ricoverata in manicomio. Falliti tutti i tentativi di far fortuna sia nella ricerca dell’oro che nel commercio, diventa giocatore d’azzardo e pistolero riuscendo a guadagnare talmente tanto da riscattare da un bordello, Amelia, una presunta nipote. Novello Pigmalione, la fa diventare una dama e la fa sposare ad un rampollo di un politico. Si sistema anche lui con Olga, una giovane svedese dalla quale ha un figlio, Olaf.
In viaggio vengono attaccati dai Cheyenne e la sua famiglia viene rapita. Per cercare di recuperarla si arruola
nel Settimo Cavalleria, come mulattiere, sotto il comando del generale George Armstrong Custer. Dopo uno scontro coi Cheyenne, ritorna alla sua tribù, riconosce nella bisbetica moglie bianca di Piccolo Orso la sua Olga, ma non c’è nessuna agnizione. Anzi si rifà una famiglia con Luce del sole, una giovane vedova e le sue tre sorelle. L’idillio viene infranto al suono del “Garry Owen” del Settimo Cavalleria di Custer, durante il massacro, lungo il Washita, Jack medita la vendetta. Ritorna nell’esercito con una missione, uccidere il nemico più pericoloso per gli indiani. Penetra nella tenda di Custer con un coltello, ma non riesce ad assassinarlo a sangue freddo. La resa dei conti avverrà nel centenario dell’indipendenza degli Stati Uniti: “Ma soltanto io c’ero, e quelle cose le vissi, e giuro che ho detto la verità, per quanto può essere vero un ricordo. Ancora oggi ho le cicatrici, sulla guancia e sulla spalla, delle ferite che ebbi su quell’altura sopra il Little Bighorn, Territorio del Montana, il 25 giugno 1876, nel combattimento con gli indiani Sioux e Cheyenne nel quale il generale George A. Custer e cinque reparti del VII Cavalleria degli Stati Uniti perirono fino al penultimo uomo.
Perchè ho taciuto sinora? Be’, in questo paese gli indiani a noi ostili non sono mai stati popolari, ma per qualche anno, dopo il Little Bighorn, gli amici degli indiani erano diventati meno degli amici del serpente a sonagli. “E’ vero” – mi capita di dire con qualcuno che ha voglia di divertirsi – “furono i miei amici Cheyenne a salvarmi.”
In seguito Berger scrisse “Il ritorno del Piccolo Grande Uomo”, fu annunziata l’edizione italiana per i tipi della
Rizzoli nel 1999, che ancor oggi risulta introvabile sia nelle biblioteche che nelle librerie.
IL PICCOLO GRANDE UOMO – 1970
regia di Arthur Penn
sceneggiatura di Calder Willingham
“Il mio prossimo film sarà sugli indiani ‘America tra il 1840 e il 1874 (sic). Spero di non fare un film con lo scopo di farne un successo, ma di provare a dire la verità. L’indiano era rappresentato come un selvaggio assetato di sangue, che impediva all’uomo bianco di vivere tranquillo. Penso che fosse il contrario. Gli indiani erano dai bianchi espulsi brutalmente dai loro territori. É una delle storie più tristi che esistono al mondo e spero di riuscire a mostrarla con sincerità. Si intitolerà “L’Inferno”. Non sarà un western con cow-boys e indiani, che si battono sulla prateria. E’ una storia che si svolgerà tutta nell’intimo di una persona:” Arthur Penn-”Cineforum”-1968- intervista citata da Fabio Carlini nella monografia su Arthur Penn L’interesse per i “pellerossa” nasce fin dalla preistoria del cinema americano: risalgono al 1984 nel primo studio cinematografico, costruito da Thomas Alva Edison e diretto da William Kennedy L.
Dickson a West Orange nel New Jersey, denominato “Black Maria” per l’aspetto che ricordava i furgoni cellulari polizieschi , le prime esibizioni indiane riprese dal repertorio circense del “Wild West” di Buffalo Bill: “Indian War Council” con diciassette guerrieri e “Sioux Ghost Dance”. In seguito indigeni bellicosi hanno imperversato per moltisimi western “il cinema americano per eccellenza”. Nel 1970 in piena guerra del Vietnam, contestazione studentesca e marce pacifiste, anche il western capì che il tempo stava rapidamente cambiando. Quell’anno uscirono tre film tipici di questo nuovo corso: “Un uomo chiamato cavallo” di Elliott Silverstein con Richard Harris, di grande fascino etnografico ma con un eroe “viso pallido” e pure aristocratico britannico, “Soldato Blu” di Ralph Nelson con Peter Strauss e Candice Bergen, piuttosto romantico ma con un finale truculento e infine “last but not least” “Il piccolo grande uomo” di Arthur Penn. I primi due mostrano i nativi americani come selvaggi ma non privi di dignità seppure vittime designate alla inarrestabile avanzata della civiltà. Il film di A. Penn invece malgrado i buoni propositi iniziali è diventato un film di grande successo spettacolare, ancor oggi godibile sui teleschermi ma il ruolo degli indiani è decisamente risibile rispetto a quello occupato nel libro da cui è stato “ridotto” il film. Si salva “Vecchia Cotenna”, il nonno del protagonista ma soltanto per l’interpretazione carismatica di Chief Dan George un attore indiano, della tribù Burrard di Vancouver, con precedenti di scaricatore di porto e poeta, il quale è stato anche candidato all’Oscar invano. Il tono picaresco e buffonesco che attraversa il film si interrompo soltanto con i massacri di Sand Creek e Washita, ma è poi ripreso nella battaglia del Little Bighorn e finisce in quella comica finale del “Buon giorno per morire” rinviato per l’ennesima volta a causa maltempo. La performance di Dustin Hoffman non è eccellente: il “trucco e parrucco” è eccessivo, spesso è ridondante rispetto la mimica facciale dell’attore, ansante dietro un “fregolismo coatto”. Hoffman è stato battezzato dalla madre in onore di un suo eroe cinematografico, Dustin Farnum, un cow boy dell’epoca del cinema muto. Quindi “omen nomen” non ha potuto, seppure riluttante rifiutare quell’occasione da “mattatore” che gli porgeva su un piatto dorato, Arthur Penn. Rimarchevoli per somiglianza e efficacia interpretativa le ottime prove di Richard Mulligan e Jeff Corey nei mitici panni del Generale Custer e nel pistolero Wild Bill Hickok. Il film è stato girato in Montana e in Canada e sono stati impiegati centinaia di figuranti provenienti dalle riserve indiane, con risultati piuttosto scoraggianti. Come requisito d’ingaggio alle comparse era stato chiesto l’abilità di cavalcare a pelo, per girare la scena dell’attacco indiano contro il VII cavalleria. Durante la carica a cavallo giù per la collina, la maggior parte di loro fu disarcionata e i cavalli precipitarono gli uni sugli altri. Al momento del climax della battaglia, quando anche Custer viene ucciso, alcuni indiani presi dalla frenesia bellica, tolsero le punte di gomma poste sulle cuspidi delle frecce e disgraziatamente una controfigura perse la vista per un occhio trafitto. Nella riserva la qualità di vita era miserabile, si mangiava poco ma si beveva molto liquore di bassa lega, rottami di auto fracassate fiancheggiavano la strada che non portava da nessuna parte che valesse la pena di andare.