La chiesa: qualche cenno storico
Naturalmente, trovandosi all’interno di un complesso monumentale così interessante come quello della Pietà, il gruppo degli Amici della Biblioteca che sabato 9 novembre ha assistito al concerto d’organo tenuto dal Maestro Mabilia non poteva limitarsi a questo, per quanto gratificante potesse essere l’evento. Infatti è stato anche possibile effettuare una visita guidata alla chiesa e all’annesso museo, supportati dalla competenza della dott. Deborah Pase, mentre gli “aggregati” sono stati invece seguiti dal dott. Giuseppe Ellero. Ad entrambi va naturalmente un sentito ringraziamento per la professionalità e la simpatia con cui ci hanno accolti: sarà magari una frase abusata, ma è senz’altro vero che senza di loro l’evento non avrebbe potuto avere l’esito pienamente soddisfacente che ha avuto. Un ringraziamento va anche al direttore dell’Istituto della Pietà (più precisamente: Istituto Provinciale per l’Infanzia), Massimo Zuin che ha voluto intervenire per un breve saluto, intrattenendosi con il presidente dell’Associazione Amici della Biblioteca, Antonio Carraro, e con Silvano Checchin, sindaco di Spinea, che si trovava tra i partecipanti alla visita.
La chiesa, dunque. Quella che è conosciuta popolarmente come chiesa della Pietà – per motivi facilmente intuibili – è in realtà intitolata a Santa Maria della Visitazione. E a questo punto non posso non rilevare un dato sconcertante: Maria fa visita alla cugina Elisabetta, subito dopo aver ricevuto dall’Angelo l’annuncio del concepimento di Gesù. Elisabetta, moglie di Zaccaria e a sua volta incinta, rivolge alla Madonna parole di saluto rimaste famose (benedetta fra tutte le donne e benedetto il frutto del ventre tuo...) ricevendo in risposta un’espressione di gioiosa accettazione, che diventerà il Magnificat: L’anima mia magnifica il signore e trasale di gioia il mio spirito….
Nientemeno: la futura madre del Salvatore e la madre di quello che diventerà il Battista si incontrano ed esultano, congratulandosi vicendevolmente per le rispettive gravidanze. Tutto questo evocato proprio nella chiesa annessa all’orfanatrofio, il luogo doloroso dove venivano abbandonati e allevati (se non morivano subito) bambini non voluti, per povertà o per egoismo, comunque rifiutati e avviati ad un’infanzia forse sicura, ma certamente poco felice. Se è voluta, questa è un’infame crudeltà, se è involontaria, si tratta di una stupidità abominevole. Meglio dunque la denominazione popolare, che certo non deriva da prese di posizione ideologiche, ma almeno risulta più neutra.
L’edificio che vediamo oggi, con la bianca facciata in pietra d’Istria sulla Riva degli Schiavoni nel sestiere di Castello non è però quello originario, distrutto dall’incuria e dal degrado del tempo. Quest’ultimo, risalente al Cinquecento, sorgeva sul lato destro, nel sito dell’odierno Albergo Metropole, e fu abbandonato nel XVIII secolo perché ritenuto ormai inadatto ad accogliere adeguatamente il pubblico sempre più numeroso che accorreva alle esibizioni delle coriste della Pietà, le cosiddette Figlie de Choro: veri e propri spettacoli musicali, famosi in tutta la città.
Dopo molte valutazioni e ripensamenti, il progetto della nuova fabbrica fu affidato a Giorgio Massari, allievo di Longhena e molto attivo in area veneta. In ambito civile progettò infatti Palazzo Grassi e portò a compimentoCa’ Rezzonico, mentre in terraferma le sue opere principali sono Villa Giovannelli a Noventa Padovana e Villa Cordellina a Montecchio Maggiore. Sua è anche la facciata dellaScuola della Carità, ora Accademia di Belle Arti, del 1750. Tra gli edifici religiosi si ricordano, oltre la chiesa della Visitazione anche, la Chiesa dei Gesuati, e quella di san Marcuola; fuori Venezia la Chiesa di San Benedetto a Scorzé. Lavorò inoltre all’Altare del Santissimo Sacramento del Duomo di Padova.
La chiesa massariana fu costruita fra il 1745 e il 1760. La facciata però rimase incompiuta fino all’inizio del XX secolo e solo nel 1906 si procedette ai lavori di completamento secondo il progetto originale, con l’unica variante dell’ornamento superiore (una croce in marmo al centro della sommità invece di tre statue) e altri elementi decorativi, per cui si perse l’effetto di gusto rococò previsto inizialmente, avvicinandosi a quello che sarà lo stile neoclassico.
La consacrazione ufficiale ebbe luogo il 14 settembre del 1760, a cura del Primicerio di San Marco (ospedale e chiesa erano infatti di diritto dogale) con tre giorni di Messe e di musiche del Latilla per far festa all’avvenimento. Seguì la visita ufficiale del Doge Francesco Loredan, accompagnato dalla Signoria. Ai festeggiamenti mancò soltanto Antonio Vivaldi, morto nel 1743, la cui opera tanto aveva contribuito alla fama musicale dell’ Ospedale de la Pietà.
Molti erano stati gli interventi finanziari di privati che avevano contribuito alla costruzione e soprattutto alla decorazione della chiesa con elemosine e lasciti, così come avevano sovvenzionato l’attività assistenziale dell’orfanatrofio. Con la fine della Repubblica, avvenuta nel 1797, anche le strutture amministrative dell’Ospedale della Pietà entrarono però in crisi, benché i vari decreti napoleonici abbiano miracolosamente esentato l’Istituto dalla furia iconoclasta che ha invece colpito tante altre istituzioni religiose d’Italia. La chiesa quindi rimase pressoché abbandonata, soprattutto per irrisolvibili difficoltà economiche.
Il patriarca Monico, nella visita pastorale del 31 maggio 1831 disponeva che se ne completassero la facciata e pavimento nonché si effettuasse il restauro della pala di San Spiridione, ma non accadde nulla. Nella terza visita del 30 giugno 1842, il medesimo ordine veniva ripetuto aggiungendovi che nell’altare del Rosario i gradini di legno fossero sostituiti con quelli di marmo. Un primo lotto di restauri fu attuato però solo nel 1852 con la sostituzione del pavimento del Massari in cotto con uno a lastre marmoree, con la trasformazione della sacrestia in cappella della Addolorata e, a sua volta, destinando a sacrestia lo stanzino di sinistra, accanto al presbiterio.
Dopo decenni di faticosa sopravvivenza, interrotta solo dal completamento della facciata, avvenuto all’inizio del XX secolo grazie al lascito testamentario del banchiere veneziano Gaetano Fiorentini, per una nuovi restauri si dovette aspettare il 1969. In seguito, dopo decenni di silenzio, nel 1978, in occasione del terzo centenario della nascita di Antonio Vivaldi, si riprese anche l’attività musicale. La Chiesa della Pietà fu allora riaperta ai concerti, e ancora oggi, pur sempre senza tradire la sua caratteristica di luogo sacro, ospita vari complessi, con programmi dedicati a Vivaldi e a musicisti barocchi veneziani ed europei. Dal 2004 vi è stato inoltre annesso un museo, piccolo ma prezioso per la presenza di rarissimi strumenti d’epoca (ovvero quelli utilizzati dalle Figlie de Choro durante le lezioni di musica), provenienti da un’antica Cappella Musicale e non sottoposti a manipolazione per l’esecuzione moderna.
L’edificio: quasi un teatro
L’interno dell’edificio, che esercitava appunto la funzione di auditorium pubblico, è studiato e coordinato nei minimi dettagli per suggerire l’impressione di un teatro e, come un teatro, fornire particolari requisiti di acustica e di disposizione degli spazi secondo le diverse esigenze di ascolto e di “rappresentanza” cittadina.
L’atrio è ellittico e absidato ai lati, in armonia con la forma del presbiterio. Una serie di iscrizioni lapidarie ai muri, eseguite nel corso dell’Ottocento, ricorda la storia dell’edificio. Nel progetto del Massari, l’atrio doveva adempiere la funzione di filtro dei suoni, una sorta di camera ovattata che impedisse ai rumori esterni di turbare il raccoglimento spirituale dell’ambiente e l’esecuzione delle armonie musicali.
L’impianto planimetrico generale della chiesa è rettangolare ma con gli angoli fortemente smussati, quasi a semicerchio, che conferiscono all’aula una forma pressoché ovale. Al fine di creare l’illusione della cappella, i quattro altari agli angoli, quindi due per lato, sono posti in leggera rientranza. Qui si evidenzia la generosità dei fedeli e dei committenti privati, che hanno in gran parte finanziato sia la costruzione sia l’esecuzione delle opere d’arte che li completano e decorano.
Sul fondo si apre il presbiterio che a sua volta ripete nel proprio perimetro la forma ovale, con l’altar maggiore che vi sorge isolato al centro. Lo affiancano ai lati i due ambienti del battistero e della sacrestia, entrambi con pianta a perfetto semicerchio.
La navata, ad unico ordine, con paraste e sezioni di capitello corinzio su plinti di base, è coperta da un soffitto a volta la cui speciale curvatura fu appositamente studiata dal Massari per raggiungere la migliore sonorità.
Dando l’impressione di un interno teatrale, lateralmente, sopraelevate, si aprono le cantorie, ovvero palchetti destinati all’orchestra e al coro, collegati al corpo dell’Ospedale della Pietà. Infatti l’antica sacrestia, sopra il cui ingresso si trova la cantoria di sinistra, dal 1852 adibita a cappella dell’Addolorata, e poi ad altri usi, fu inserita dal Massari nel tessuto della chiesa a forma di manica lunga, che immetteva appunto nel vicino Ospedale, collegandola al presbiterio a mezzo di un corridoio, scavato entro il muro.
Nella cantoria di sinistra è collocato ancora oggi l’organo di Pietro Nacchini (1759), mentre al centro, con ottima visuale su tutta la chiesa si trova una specie di palco d’onore, destinato alle autorità, che potevano assistere ai concerti con la garanzia di riservatezza ed anonimato. I parapetti e le grate in ferro battuto sono infatti decorati con un fittissimo intreccio destinato a rendere invisibili al pubblico il volto di chi sostava nei palchi, si trattasse della musiciste dei patrizi veneziani, o infine degli ambasciatori stranieri. Nella decorazione domina il motivo del fiore di melograno, quasi un marchio iconografico dell’Istituto, essendo interpretato nel mondo cristiano come simbolo dell’Immacolata, modello morale cui le orfanelle erano tenute ad attenersi. Nel “palco d’onore”, ovvero sulla controfacciata della chiesa, è stata successivamente collocata la Cena in casa del Fariseo di Alessandro Bonvicini detto Moretto da Brescia, firmata e datata 1548, grande tela proveniente dal convento dei santi Fermo e Rustico di Monselice, già proprietà dell’ospedale della Pietà, che l’aveva acquistata nella vendita pubblica del 1690.
Alla presenza delle Putte e alla loro apprezzatissima attività concertistica allude anche un dipinto che può considerarsi il vero gioiello della chiesa: l’affresco del soffitto della navata, opera di Giovan Battista Tiepolo. Il dipinto, riproducente La Gloria o l’Incoronazione di Maria Immacolata (175), s’impone all’attenzione del visitatore per lo smagliante cromatismo e il dinamismo della composizione. La Vergine, in piedi sul globo, circondata dalla corte celeste, sta per essere incoronata dal Padre Eterno, mentre intorno a lei diversi angeli musicanti le rendono omaggio. Il tema generale dell’affresco fornì quindi all’autore anche il pretesto per esaltare l’arte della musica, inserendo diciassette strumenti a corda e a fiato di uso comune, creando così un collegamento ideale con le Figlie de Choro, che peraltro proprio all’Immacolata, loro patrona, riservavano una devozione particolare.
Vivaldi e le Figlie de Choro
Come abbiamo più volte accennato, l’attività concertistica della Pietà era tutta affidata ragazze ospitate nell’orfanatrofio che, nel corso di una audizione preliminare, avessero rivelato attitudini musicali. Esse venivano istruite ed educate al canto e all’esecuzione strumentale, esibendosi poi sotto la direzione di grandi maestri, come Francesco Gasparini e Antonio Vivaldi , che, oltre a svolgere un’attività didattica, componevano pezzi appositamente destinati alle loro esibizioni.
Le musiciste – in qualche caso erano anche compositrici- erano dette Figlie de Choro per distinguerle dalle Figlie de Comun, le trovatelle che non godevano di speciali doti artistiche, e quindi dovevano partecipare alla conduzione del pio istituto (governato da benemeriti cittadini veneziani e finanziato dalle Scole Grandi) con occupazioni più modeste e sottovalutate: lavoravano la seta, filavano, cucivano, badavano alla pulizia e alla cucina. Dalla musica erano esclusi i ragazzi, perché il gusto del tempo apprezzava soltanto le cosiddette “voci bianche”: voci femminili, quindi, non essendo diffusa la barbara usanza di castrare i maschi. Gli esposti erano quindi avviati alle attività artigianali e, avendo automaticamente diritto all’iscrizione ad una corporazione di mestiere, potevano diventare tagliapietre, tessitori, calzolai e arsenalotti: tutti lavori dignitosi e tali da garantire il mantenimento, benché umili e socialmente poco considerati.
Le coriste costituivano dunque la componente più prestigiosa dell’istituzione e per questo conducevano una vita privilegiata rispetto alle altre ospiti, potendo godere di cibo migliore e di qualche uscita presso le famiglie dei Governatori. Non era escluso inoltre che potessero svolgere anche altri incarichi di diverso genere, ma egualmente apprezzati, come assistere il chirurgo, preparare farmaci, occuparsi degli ammalati. La musica rimaneva però il primo e più importante interesse, cui si accedeva dopo un periodo di studio e di severo apprendistato. Complessivamente nello stesso periodo le musiciste potevano arrivare ad essere una sessantina, ma non tutte suonavano e cantavano contemporaneamente, considerato anche lo spazio limitato della cantoria dove avveniva l’esibizione. Alcune, le migliori, diventavano Maestre e, coadiuvate dalle Privilegiate de choro, ovvero le più esperte tra le coriste, si occupavano delle ospedalere e delle Figlie di Educazione, bambine nobili o borghesi provenienti da ogni parte d’Europa per apprendere quest’arte proprio alla Pietà, dove potevano rimanere fino al sedicesimo anno. Quello di Maestra era il livello più elevato cui una Figlia de Choro potesse aspirare; il numero delle Maestre ed era limitato a venti per volta, e solo due di esse potevano diventare Maestre di coro, responsabili di tutto quanto riguardava il coro, sul piano musicale o disciplinare. Le altre diciotto avevano una varietà di mansioni musicali e amministrative per le quali venivano periodicamente riconfermate o sottoposte a rotazione.
Quella che si eseguiva alla Pietà era quasi esclusivamente musica sacra e diverse testimonianze d’epoca ci confermano l’altissimo livello virtuosistico raggiunto dalle musiciste, che, oltre a cantare, potevano arrivare a suonare anche due o tre strumenti, preparandosi su libri e strumenti messi a disposizione dallo stesso pio Istituto (sovvenzionato, come si è detto, da benefattori e eminenti esponenti delle Confraternite maggiori). Del resto, l’educazione musicale era affidata non soltanto alle Maestre, a anche ad artisti di grande fama e talento, che spesso hanno mantenuto con la Pietà una collaborazione di lunghissima durata. Non è casuale che la chiesa omonima (anzi, della Visitazione) sia conosciuta anche come “chiesa di Vivaldi” e “putte di Vivaldi” sono dette appunto le ragazze che per lungo tempo si esibirono sotto la sua direzione.
Il Prete Rosso (1678 -1741) infatti visse e lavorò per la Pietà per circa quarant’anni, tra il 1704 e il 1740, dal momento che, anche dopo la rescissione del contratto vero e proprio, non interruppe mai completamente rapporti con l’Ospedale.
Dal 1701 la direzione musicale della Pietà era affidata a Francesco Gasparini, maestro di coro. Costui, musicista di talento ed estremamente fecondo, dedicò tuttavia una parte preponderante della sua attività ad allestire opere al Teatro Sant’Angelo lasciando libero campo a Vivaldi perché questi passasse, di fatto, da semplice collaboratore a principale animatore musicale dell’Ospedale. Benché giovane la sua fama aveva già iniziato a diffondersi e nel settembre egli 1703 egli fu ingaggiato come maestro di violino dalle autorità del Pio Ospedale, dove iniziò la sua attività il 1º settembre 1703 con uno stipendio di sessanta ducati annuali. Nell’agosto del 1704 il compenso fu portato a cento ducati, in quanto aggiunse anche la posizione di iola all’inglese, e nel 1705 ricevette l’incarico della composizione e dell’esecuzione dei concerti, con un salario aumentato a centocinquanta ducati annui – somma complessivamente modesta per l’epoca e per la crescente rinomanza del personaggio – alla quale si aggiungeva la remunerazione delle messe quotidiane dette per la Pietà o per le ricche famiglie patrizie. Alla Pietà Vivaldi rimase fino al 1720.
A giudicare dagli scarsi documenti pervenuti, sembra però che il suo rapporto con il consiglio direttivo dell’Ospedale, non sia stato sempre del tutto sereno. Era prassi che i vertici dell’istituto veneziano si riunissero annualmente per votare se tenere oppure no un insegnante. Raramente Vivaldi fu sottoposto a questa verifica, ma nel 1709 perse il suo posto per sette voti contro sei a favore. Per oltre un anno dovette perciò esercitare la libera professione di musicista, fino a che nel 1711 non fu riassunto alla Pietà, i cui Governatori avevano evidentemente compreso la sua importanza all’interno della scuola. Nel 1713 divenne il responsabile per l’attività musicale dell’istituto e nel 1716 maestro de’ concerti. Dal 1718 Vivaldi iniziò a spostarsi con molta facilità, lavorando per diversi enti e teatri a composizioni di vario genere. Sembra però non aver mai rotto completamente i legami con la Pietà, anche durante gli anni in cui sembra aver abbandonato l’insegnamento. Dalle registrazioni degli atti è possibile constatare che tra il 1723 e il 1729 fu pagato per comporre almeno centoquaranta concerti. Ed è comunque probabile che abbia continuato a produrre per l’Ospedale anche in forma privata, fornendogli concerti e composizioni varie durante tutto l’arco della sua vita.
I più importanti lavori liturgici commissionati dal Pio Istituto furono due oratori: il primo, Moyses deus Pharaonis (RV 643), risulta però perduto e il secondo, Juditha triumphans devicta Holofernis barbarie (RV 644), composto nel 1716 su libretto di Jacopo Cassetti, è uno dei lavori sacri più noti di Vivaldi.
Fu commissionato per celebrare la vittoria della Repubblica di Venezia contro i Turchi e la riconquista dell’isola di Corfù, che era stata assediata nel luglio di quello stesso anno, mentre la popolazione opponeva resistenza. In agosto Venezia firmò un’alleanza con il Sacro Romano Impero Germanico e il 18 agosto, sotto il comando del conte Johann Matthias von der Schulenburg, la battaglia decisiva fu vinta. I Turchi furono costretti ad abbandonare l’isola.
Juditha triumphans fu messa in scena alla Pietà in novembre, alla presenza delle massime autorità cittadine e dello stesso generale von der Schulenburg. Il successo fu strepitoso: la storia diGiuditta e la sua vittoria contro l’invasore Oloferne piacque perché, naturalmente, veniva letta come allegoria dell’affermazione della Serenissima sugli Ottomani. Ma il vero motivo del gradimento va forse cercato nell’esecuzione: tutte le undici parti sia maschili che femminili (contralto e soprano), furono interpretate dalle ragazze della Pietà e molte arie comprendevano parti per solisti come flauti dolci, oboi, clarinetti, viola d’amore, mandolini, appositamente studiate per mettere in evidenza il talento delle virtuose anche in strumenti particolarmente rari e di non facile reperibilità per l’epoca.
Del resto, se ai Governatori dell’Ospedale va riconosciuto il merito di aver saputo comprendere e valorizzare sin dai suoi anni giovanili il talento vivaldiano, riuscendo ad intravvedere sotto le vesti del maestro di violino il genio del compositore, va anche detto che per un musicista poter lavorare in una istituzione prestigiosa come la Pietà era senz’altro un’occasione privilegiata, che consentiva di disporre a piacimento di strumentiste e cantanti esperte, senza preoccupazioni di numero, tempi o costi. Il compositore poteva così dar libero corso alla sua creatività e sperimentare ogni tipo di combinazione dell’organico strumentale.
E Vivaldi questo lo comprese benissimo. L’altissimo livello tecnico delle Figlie dell’Ospedale gli forniva un organico strumentale fra i più ricchi e gli dava inoltre occasione di cimentarsi in lavori tra i più raffinati ed arditi, come la sonata per flauto, fagotto e basso RV 86, o come la gran parte dei concerti a tre, a quattro, a cinque. Risale al 1707 la più antica testimonianza a noi nota dell’interesse vivaldiano verso la politimbricità, con la composizione della Sonata RV 779 per violino, oboe, organo e salmo é (una sorta di proto-clarinetto). Ma questo interesse sarà una costante di tutta la sua produzione anche di genere diverso da quello sacro ma di intrattenimento), tanto che gli ultimi lavori databili a noi noti sono proprio quei Concerti per molti strumenti che le Putte della Pietà eseguirono il 21 Marzo 1740 di fronte al Principe elettorale di Sassonia Federico Cristiano.
Del resto, la Pietà era solo una, la più famosa e prestigiosa, delle istituzioni dove le ospiti svolgevano un’attività concertistica di primo livello, tale da che richiamare regolarmente un pubblico entusiasta di cittadini e di visitatori spesso illustri, presenti a Venezia per le loro occupazioni. Anche all’Ospedaletto dei Derelitti, all’Ospedale dei Mendicanti e all’Ospizio delle Pentitenti le rispettive Figlie de Choro si esibivano con straordinario successo, continuando una tradizione che, cominciata nel Cinquecento, si protrarrà fino agli inizi del XIX secolo, quando, da un lato, le mutate condizioni politiche della città determineranno la fine o la crisi degli Istituti religiosi ed assistenziali, mentre, dall’altro, l’evoluzione della mentalità consentirà alle donne di cominciare ad esercitare la loro arte in modo libero.
Riferendosi al coro attivo ai Mendicanti (ma le medesime osservazioni potrebbero benissimo valere per la Pietà), ecco come si esprime Jean Jacques Rousseau, segretario dell’ambasciatore francese a Venezia dal 1743 al 1744:
“Una musica a mio giudizio superiore a quella delle opere, e che non ha pari né in Italia, né nel resto del mondo, è quella delle scuole. Le scuole sono delle opere di carità istituite per educare le giovinette prive di beni, a cui la repubblica fornisce la dote sia per il matrimonio o per la clausura. La musica è il primo tra i talenti che vengono coltivati in queste giovani. Tutte le domeniche nella chiesa di queste quattro scuole, durante i vespri, si danno mottetti a grande coro e grande orchestra, composti e diretti dai più grandi maestri d’Italia, eseguiti attraverso tribune grigliate da ragazze la più vecchia delle quali non ha vent’anni. Io non riesco ad immaginare nulla di così voluttuoso, di così toccante come questa musica: la ricchezza dell’arte, il gusto squisito dei canti, la bellezza delle voci, la perfezione dell’esecuzione, tutto in questi concerti concorre a produrre un’impressione che non è certamente di buon costume, ma di cui sono certo che nessun cuore d’uomo sia al riparo. Né Carrio né io mancammo mai a questi vespri ai Mendicanti (cioè al collegio dove aveva lavorato il padre del nostro compositore), e non siamo i soli. La chiesa era ogni volta piena di intenditori; perfino gli attori dell’Opera venivano a formarsi al vero gusto del canto su questi eccellenti modelli. Ciò che mi disturbava di più erano quelle maledette griglie, che non lasciavano passare che dei suoni e mi nascondevano gli angeli di bellezza di cui essi erano degni.”
Ammirate, elogiate, riverite da uomini di tutte le provenienze ed estrazioni sociali. Era dunque un continuo piacere, un succedersi di soddisfazioni la vita delle Putte de choro? Assolutamente no, perché – almeno in condizioni normali – il riconoscimento andava solo al gruppo preso nella sua globalità, nessuno percepiva le personalità individuali. Le ragazze non avevano né volto né identità: cantavano e suonavano nascoste e anonime. Tutti si estasiavano ad ascoltarle, ma nessuno le conosceva, né aveva la possibilità di vederle: singolarmente non esistevano, erano soltanto ingranaggi della macchina meravigliosa che produceva musica per il diletto di spettatori privilegiati. Ciò è confermato dai manoscritti di Vivaldi, che compose molte opere pensando concretamente alle singole Putte che incaricate di eseguirle: qui esse sono indicate solo in base alla specialità del loro virtuosismo: ad esempio, la prima composizione composta per la Pietà, la già citata “Sonata per Oboe, Violino, Organo” e Salmo (RV779), fu scritta per Pelegrina dall’Oboe, Prudenza dal Contralto, Candida dalla Viola, e Lucietta Organista. Nessun cognome, nessun dato personale.
Inoltre, in quanto trovatelle, mantenute dalla “pietà” di istituzioni e benefattori, le ragazze erano tenute a ricambiare con la loro arte la carità che ricevevano per vivere. Per questo non erano pagate, anzi, a tutti gli effetti si possono ritenere vittime di un vero e proprio sfruttamento, ricevendo come massima ricompensa un obolo, un’elemosina dai ricchi veneziani che assistevano alle loro esibizioni, mentre al contrario maestri e compositori erano regolarmente stipendiati.
Credo però che l’aspetto peggiore della loro condizione riguardasse la segregazione e la totale mancanza di libertà personale. Sottoposte ad una disciplina rigidissima, vivevano infatti recluse e praticamente prigioniere. Solo eccezionalmente e solo a qualcuna era concesso uscire per rigenerarsi in campagna presso la famiglia dell’uno o l’altro dei Governatori o per partecipare a qualche evento tanto raro e singolare da restare poi segnalato in molti documenti. Questo accadde, per esempio, ad una certa Anna Maria (1695/6 –1782), maestra di coro, cantante e violinista di grande talento. Sotto la guida di Vivaldi divenne primo violino del coro, sapendo tuttavia cimentarsi anche in numerosi altri strumenti e dimostrando un’abilità musicale multiforme davvero fuori del comune, che la portò alle massime cariche dell’Istituzione e le consentì di acquisire apprezzamenti entusiastici anche da parte di varie personalità straniere in visita a Venezia.
Anna Maria fu dunque una delle cinque Figlie cui, assecondando la richiesta della nobildonna Marietta Corner, fu concesso un permesso speciale per partecipare come concertiste in una disputa sulla dottrina cristiana tenutasi al convento di S. Francesco della Vigna. Ma questi erano casi davvero straordinari, e per una Anna Maria che, per una volta, ha potuto assaporare l’aria della città, altre decine, centinaia di Putte per decenni hanno trascorso la loro esistenza nel buio dei rispettivi istituti.
Non deve quindi ingannare il fatto che molte Putte, raggiunta un’età in cui finalmente potevano essere liberate” preferissero invece rimanere, mantenendosi con svariati lavori e mansioni dentro l’Ospedale. Non la gradevolezza della vita reclusa le attirava, ma la consapevolezza che ormai il mondo esterno non le avrebbe più accolte in modo accettabile. Né loro avrebbero probabilmente saputo adattarvisi: una donna sola non aveva chances neppure nella Venezia del Settecento (per non parlare dei secoli precedenti), disinibita e libertina, ma pur sempre legata a determinate convenzioni sociali. Ci voleva un marito. Ma quando una Figlia cercava di sposarsi, non era poi così facile: l’età, che per i canoni dell’epoca si considerava avanzata, costituiva un serio impedimento, cui si aggiungeva il fatto che quasi nessuna aveva potuto formarsi una dote con le misere elemosine ricevute nel corso degli anni. E a quel tempo la dote contava molto.Che vita sarebbe stata, allora? Meglio, nonostante tutto, la serenità ovattata dell’Istituto.