MASSIMO CARLOTTO – MARCO VIDETTA: Le Vendicatrici, Einaudi, Torino 2013
Gruppo di lettura L’Italia in Giallo – giovedì 23 gennaio 2014
Dopo il bellissimo Nordest pubblicato nel 2005, la fortunata collaborazione tra Massimo Carlotto e Marco Videtta riprende con Le Vendicatrici, titolo collettivo per una miniserie di quatto volumi usciti a ritmo serrato nel 2013. Concepiti sin dalla fase progettuale come altrettanti sezioni di un unico polittico grandioso e complesso, i romanzi raccontano le storie di quattro donne – diversissime fra loro per carattere, provenienza, cultura – che si identificano e diventano amiche per la medesima sorte di alienazione e sofferenza, dovuta non all’ineluttabilità di un fato insondabile, ma all’azione volontaria e colpevole di uomini concreti e riconoscibilissimi, ora criminali incalliti ora più semplicemente amici, collaboratori e compagni cui esse hanno avuto il torto di concedere fiducia e amore.
Si comincia con Ksenia, la bella ventenne siberiana con un passato di successi sportivi che le avrebbero consentito una luminosa carriera, se tutto non fosse stato bruscamente interrotto dall’espulsione dalla squadra a causa della sua omosessualità. Al suo paese la ragazza ha conosciuto tutti i rigori liberticidi del regime post-sovietico, oltre alla brutalità di un padre ubriacone e violento. Il trasferimento in Italia quindi è stato voluto e programmato come unica possibilità di fuga e di riscatto. Ksenia arriva col sogno di trasformarsi in una delle tante “spose siberiane”, tranquilla e appagata accanto ad un marito piacente, benestante ed affettuoso. Finita nelle grinfie di un losco trafficante di vite umane, si ritrova invece senza soldi e senza documenti, venduta al laido Antonino Barone, un vecchio strozzino che stritola della morsa dell’usura, spesso rovinandoli, i commerciante della zona e un’infinità di altri clienti sparsi in tutta la città. E non basta: perché è anche implicato in una variegata serie di altre attività, ovviamente illegali, che lo collegano a bande e organizzazioni criminali di varie nazionalità.
Per le tragiche conseguenze sulla vita di Ksenia, il peggio è rappresentato però dai vizi privati cui l’immondo Antonino si abbandona quando non è impegnato nel “lavoro”: atteggiamenti repellenti e bestiali, come la porcina avidità con cui si ingozza di cibo e soprattutto le pratiche sessuali perverse a cui la ragazza è costretta a sottomettersi. Antonino infatti è legato da un amore incestuoso alla sorella Assunta, senza poterlo consumare, in nome di una devozione religiosa (!) tanto vincolante quanto distorta. Sarà dunque Ksenia lo strumento del loro piacere, vittima sacrificale e capro espiatorio finito senza colpa in balia di due personalità abiette e pericolosamente tarate.
Carattere forte e temperamento razionale, ma priva di risorse e incapace di vedere una via d’uscita, la siberiana a poco a poco si abbandona alla depressione, e per lei sarebbe la fine, se non intervenisse a salvarla dapprima l’amicizia, poi l’amore di Luz, la bellissima colombiana che abita nella casa di fronte. Anche lei fuggita dalla realtà opprimente del paese d’origine e da un’illusione d’amore rivelatasi fallimentare, ora vive facendo la prostituta e dedicando tutte le proprie attenzioni alla figlioletta Lourdes. Per il suo doloroso passato e più ancora per le eterogenee frequentazioni imposte dal suo mestiere, Luz ha accumulato esperienze e conoscenze della fauna umana certamente in grado di annientare o svilire una personalità più fragile o più ottusamente inflessibile della sua. In lei invece purezza d’animo e cordiale adesione alla vita sono rimaste miracolosamente intatte. Così Luz, cuor d’oro, tutta passione e istinto (con qualche mossa talvolta magari un tantino avventata), offre il giusto contrappeso alla diffidenza un po’ ombrosa, benché comprensibilissima, della giovane Ksenia. Insieme le due donne costituiranno un primo nucleo di contatti e solidarietà intorno al quale potrà condensarsi una piccola comunità di donne, tutte in qualche modo vittime della criminalità o della sopraffazione maschile, che proprio dall’unione e dall’amicizia riusciranno a ribellarsi e a rifarsi una vita.
A loro si avvicina quindi anche Eva, affascinante proprietaria di Vanità, la profumeria del quartiere sposata all’inetto Renzo, il quale, per non saper rinunciare al vizio del gioco, rovina se stesso e lei, abbandonandola infine quando non ci sarà più niente da sfruttare. La dolce Eva, indebitata con le banche e priva di credito, finisce nel giro di usura di Barone, precipitando sempre più rovinosamente. E sempre a causa del marito dovrà affrontare persino il micidiale assalto di Melody, una splendida (naturalmente!) creatura appartenente al clan dei Mascherano, consorteria zingaresca e mafiosa che opera soprattutto nella riscossione del pizzo e nello spaccio di droga. Ma le risorse affettive e l’intelligenza pratica portano Eva a non perdersi d’animo, sapendo trovare nuove formule per reinventarsi la vita. Come per esempio associando le amiche nella gestione della profumeria, o escogitando soluzioni… alternative per il pagamento delle quote dovute.
Anche Melody, a sua volta, è una vittima, e per di più su due fronti molto lontani fra loro da un lato viene illusa, sfruttata e infine abbandonata dallo squallido Renzo, di cui lei si è sinceramente innamorata. Dall’altro è costretta a vivere secondo i dettami voluti da Serse, il despota della “famiglia”, che ai suoi sudditi pretende di imporre, oltre alla cieca obbedienza, anche anacronistici costumi e il rispetto di strani rituali di stampo tribale. Intelligente, focosa, appassionata, Melody non subirà per sempre. Una volta compresa la meschinità di Renzo e l’assurda incongruenza dell’organizzazione cui appartiene, riuscirà a fuggire grazie all’aiuto delle Vendicatrici. Non prima però di aver favorito con le proprie rivelazioni l’attacco alla sede del clan da parte delle forze dell’ordine coordinate dal commissario Mattioli. Diventando così vendicatrice lei stessa.
Accanto a loro si muove Sara, una ragazza misteriosa e un po’ sfuggente. È lei quella che sa come muoversi, agire e colpire, forte del suo addestramento nei corpi speciali della polizia e di una relazione con un fascinoso agente che le fornisce informazioni e strumenti operativi utili per le sue svariate “missioni”. Perché Sara, che nasconde in sé un grandissimo dolore e un’altrettanto grande desiderio di verità e di vendetta, si è dimessa per poter perseguire più liberamente il proprio unico ed ossessivo obiettivo personale, ma si presta anche a numerosi interventi a favore delle amiche, con una determinazione e una versatilità che a volta appaiono inquietanti persino a loro. Teatro di tutte le storie è il quartiere romano, microcosmo non altrimenti definito, presumibilmente centrale e forse identificabile, per quanto non sia evidentemente di alcuna rilevanza, in una città bella e accogliente, ma contraddittoria, complicata, e preda, oggi forse più che in passato, di una criminalità eterogenea e spietata. Qui avviene tutto ciò che viene raccontato, ad esclusione di sporadiche e circostanziate incursioni all’esterno, necessarie all’articolarsi delle vicende. Qui si incrociano o si scontrano, agiscono e ritornano tutti i personaggi, protagonisti o comparse, presenti sin dall’inizio, anche nel caso in cui la loro “parte”si sviluppi poi in momenti successivi. Qui, soprattutto, si trova tutto ciò che caratterizza, nel bene o nel male, l’esistenza delle Vendicatrici: nel quartiere esse abitano, lavorano, soffrono. Nel quartiere stanno insieme o pericolosamente vicine ai loro aguzzini, grandi o piccoli, boss potenti o semplice manovalanza. E, infine, nel quartiere si conoscono, si frequentano, si organizzano trovando nella profumeria di Eva la base logistica da cui partire per la riscossa.
Due sono i poli di attrazione in questo piccolo mondo brulicante di sogni e di dolore: il primo è il Desiré, famigerato bar controllato da Antonino Barone, gestito e frequentato dai suoi emissari, attorno a cui ruota e confluisce tutta la delinquenza di quartiere. E dove si mettono a punto molti dei numerosissimi delitti di cui si parla in queste storie.
Sul fronte opposto, l’appartamento dove vive Angelica, assistita dallo splendido Fèlix Cifuentes, un anziano infermiere cubano già provato da varie traversie nel suo paese, che ora si dedica alla nobile missione di aiutare chi non può guarire a morire nel modo più dignitoso possibile. La casa di Fèliz e Angelica diventa il cuore pulsante che accoglie e offre conforto e sostegno generoso, ponendo le fondamenta per il consolidamento dell’amicizia della solidarietà fra le donne, preludio imprescindibile alla vendetta. Che poi altro non è che emancipazione e riconquista della propria vita.
La narrazione è dichiaratamente e volutamente impostata sulla coralità, che si mantiene in modo rigoroso nei primi due volumi (Ksenia ed Eva), per poi essere ripresa ed intensificata nel quarto, dedicato a Luz (e a Maribel). Quest’ultimo peraltro si conclude in modo inaspettato con un finale completamente affidato ad Angelica, presenza minore, ma significativa e costante in tutte le storie. Ad una lettera da leggere soltanto dopo la sua morte, Angelica affida alcune sconvolgenti rivelazioni riguardo il proprio passato: è una sorta di testamento spirituale che ha l’impatto di un macigno sulle acque peraltro non del tutto tranquille delle loro emozioni. Ma dal punto di vista narrativo tutto ciò è perfettamente giustificato e coerente, motivato dalla volontà di chiudere il ciclo che si articola organicamente in quattro capitoli, quattro storie principali che per tanti aspetti scorrono parallele senza incontrarsi, e per tanti altri invece si intrecciano e si sovrappongono in un discorso unitario, collettivo e complesso.
Evidenti anche il taglio prettamente cinematografico dei singoli episodi e la potenzialità di elaborazione seriale nell’impianto complessivo. Nulla di strano, del resto, se già altre opere di Carlotto sono state portate sullo schermo, e se Videtta, a tutti gli effetti coautore delle Vendicatrici, napoletano di nascita e romano d’adozione (ecco da dove deriva l’ambientazione!), è noto soprattutto come saggista, sceneggiatore e produttore di fiction.
Le storie sono raccontate con ritmo sostenuto e privo di pause narrative, dove le singole scene si susseguono incastrandosi una nell’altra come in un ingranaggio ben collaudato. E per di più consistono quasi esclusivamente in azione e dialogo, ovvero in quella che tecnicamente si chiama “scena”, con una spiccata tendenza anche nelle brevi sequenze descrittive e nei (rari) inserti riflessivi ad evidenziare solo particolari di tipo visivo: colori, movimenti, fisionomie, gestualità. I dialoghi sono secchi, incalzanti, costruiti con un impasto linguistico estremamente attuale e realistico, che non rinuncia all’intento mimetico del diverso parlato dei singoli personaggi o delle varie consorterie, e per questo assume alternativamente coloriture dialettali, gergali, straniere.
Assolutamente cinematografico poi è l’insieme dei personaggi, soprattutto le protagoniste femminili, che non sono quattro ma sei, contando Melody e Maribel, anch’esse vittime che ad un certo punto sollevano la testa si trasformano in ribelli, se non proprio in vendicatrici. Sei donne tutte giovani, sexy, bellissime. Insomma, sfigate sì, ma fornite almeno di un patrimonio personale di tutto rispetto, che peraltro sarà spesso causa dei loro guai. Situazione concettualmente del tutto giustificata fintantoché gli autori rappresentano episodi di abuso attinenti la sfera sessuale, oppure lo sfruttamento e il traffico di persone a questa collegato. Meno ovvio, quindi meno motivato, il requisito della bellezza in chi è vittima invece di reati d’altro genere, per esempio l’usura, ragion per cui si assiste in questo senso ad una sorta di forzatura, che si spiega appunto soltanto con l’ipotesi – niente affatto remota – di un eventuale sviluppo nel contesto della fiction. Ma in effetti un potenziale cinematografico molto elevato, per quanto diversamente caratterizzato e certo non dominato dall’avvenenza, hanno anche molti altri personaggi, siano gli aguzzini, oppure figure minori più o meno ricorrenti, prevalentemente presentati in modo espressionistico con una marcata deformazione caricaturale: figure ora orrende e abominevoli, ora semplicemente grottesche, ma pur sempre dotate di un forte impatto scenico.
Per il resto, che dire ancora di queste Vendicatrici? Ogni lettore avrà certamente le proprie preferenze e simpatie, che dipendono da fattori squisitamente soggettivi. Più selettivo diventa il discorso di riconoscimento ed identificazione, che, almeno per quanto riguarda la maggioranza del pubblico italiano, penso faccia cadere la scelta su Eva, non tanto per la nazionalità, quanto per la “normalità” che la caratterizza, nei tratti come nel comportamento, nei sentimenti, nelle pulsioni, nelle ragioni della sua forza e in quelle della sua debolezza. Troppo estremi e geograficamente connotati i casi di Ksenia e di Luz, come peraltro quelli delle co-protagoniste Melody e Maribel, troppo misteriosa e inquietante la figura di Sara. Solo Eva potrebbe essere una di noi, l’italiana media (magari un po’ più carina della media?), incasinata a causa degli uomini e di un’improvvida disponibilità ad amare, ma in fondo capace di cavarsela sempre, anzi persino rassicurante nella sua voglia di ricominciare, nonostante tutto quello che le è capitato. Dolce, spontanea, guidata sempre e comunque dal cuore, anche nei momenti più difficili e disperati, Eva non è però né sciocca né debole e sa anche distinguere con lucidità meriti e demeriti di chi le sta intorno. Il suo è uno spirito essenzialmente pragmatico, che fa tesoro delle esperienze negative con un’inossidabile determinazione a guardare avanti, ricostruendo, proprio sulle rovine del deludente legame matrimoniale, una nuova rete di relazioni e rapporti personali e professionali all’ordine della solidarietà e dell’affetto.
Eppure non è Eva la donna a cui gli autori hanno deciso di riservare il più ampio spazio. Infatti l’impostazione corale, che ovviamente impone limiti relativamente ristretti al ruolo delle rispettive protagoniste, nel terzo libro viene meno a favore di una storia individuale ed esclusiva, dove la protagonista emerge unica ed indiscussa (come si capisce già dalla copertina, dove campeggia un sottotitolo che non compare altrove).
Si tratta naturalmente di Sara. Carlotto e Videtta decidono di costruire per lei una sorta di romanzo di formazione, utilizzando a tutti gli effetti quella che nella terminologia narratologica viene definita inchiesta (quȇte) per raccontare le vicende ne hanno modellato il carattere e la personalità, seguite da quelle che, poi, la porteranno a pagare un amarissimo prezzo della verità. Si parte dal trauma infantile del rapimento del padre, mai più ritornato nonostante il pagamento del riscatto. Negli anni egli così rimane per Sara una figura continuamente rimpianta, vittima idealizzata e santificata, che perde progressivamente i connotati della realtà, fino ad assumere l’aura del mito. E fino a concentrarsi in quella che diventerà per lei l’ossessione di un’intera vita: trovare gli assassini, riscattare con la loro morte la morte del padre e tentare di placare, finalmente, i dèmoni che la tormentano. Per questo Sara, la bambina che ha visto portar via brutalmente le persona che le era più cara al mondo, l’adolescente cresciuta nel vuoto affettivo, ricca soltanto di un’incrollabile determinazione alla vendetta, la donna che ha affinato con metodica ferocia la propria preparazione per poter agire con la certezza del successo, ora finalmente indaga, ricatta, picchia, uccide. Niente può fermarla. Le prove sono sempre più complesse, gli ostacoli sempre più impervi, dipanandosi in un intreccio malavitoso complicatissimo, che, tramite flashback, richiama sulla scena molti degli orrendi personaggi già incontrati nei libri precedenti.
E la verità infine viene alla luce, ma questa sarà la prova più dura. È il crollo del mito, il disastro emotivo e affettivo. Sensazione di vuoto, straniamento, abbandono, abbrutimento: Sara perderà tutto, rischiando di non ritrovare più nemmeno se stessa. Ne uscirà, invece, ma sarà soltanto grazie alla sollecitudine degli amici: da sola non potrebbe mai farcela, perché, vittima sin dall’infanzia di una situazione affettiva psicologicamente contorta, non ha difese emotive e, aldilà della preparazione atletica e professionale, risulta vulnerabile quanto e più di chiunque altro. Solo quando scoprirà le risorse dell’amicizia e della solidarietà, riuscendo ad accettarle facendosene scudo contro i rigori del destino, Sara potrà rinascere e cominciare davvero a vivere una vita “normale”.
Ma perché proprio a lei questo trattamento speciale? Perché solo questa ragazza terribile e solitaria domina un intero romanzo, dopo essere stata del resto già al centro di numerose azioni, talvolta addirittura rocambolesche, nei libri precedenti? Mi piace pensare che gli autori si siano qui proposti di definire il ritratto a tutto tondo di un personaggio umanamente più complesso ed artisticamente più elaborato. Ovvero un personaggio che, almeno per certi aspetti, non rientra nello schema in cui si inseriscono le altre tre Vendicatrici, le quali sono tutte vittime di una delinquenza tipica dei nostri giorni e diventano, grazie alla caratterizzazione che le contraddistingue, altrettanti paradigmi storicamente connotati della società attuale. Sara è diversa sia per le motivazioni psicologiche del suo agire, sia per la volontà di conoscere le vicende pregresse causa della sparizione del padre, sia, infine, per l’evoluzione interiore, che ha tutto il sapore di una ricerca interiore di sé. La sua storia individuale infatti si colloca nel passato e non ha specifiche peculiarità che la colleghino in modo imprescindibile al momento attuale. Per un personaggio visto nell’ambito della coralità della serie come la vendicatrice per eccellenza, la più determinata, efficiente ed esperta, questa è dunque un’impennata creativa che ne qualifica la qualità letteraria. Senza che per questo venga negato e tantomeno sminuito il dato politico e antropologico dell’opera nella sua globalità, come sta giustamente a cuore a Carlotto e Videtta.
N.B.
Ho voluto illustrare questo articolo con immagini dai quadri di Edward Hopper perché è il pittore preferito da Massimo Carlotto. Lo dice ne Il fuggiasco (edizioni e/o, 1995). È l’autobiografia della latitanza. Leggetelo: merita.