San Valentino ormai è alle porte. Quale testo allora può essere migliore del Decameron per ricordarlo degnamente, ribadendo l’invito all’amore? Tra le cento storie raccontate nell’opera boccacciana c’è soltanto l’imbarazzo della scelta, a volerne selezionare una, una sola, che esemplifichi il concetto nel modo più efficace e intrigante. Ma siccome siamo anche in tempo di Carnevale, e la voglia di divertimento non manca nonostante la crisi che ci avvilisce un po’ tutti, eccone una leggera leggera, divertente e scanzonata, capace – spero – di suscitare un sorriso e donarci qualche momento di distrazione.
Si tratta della seconda novella della nona giornata, dove, sotto il reggimento di Emilia, viene concessa ai narratori della lieta brigata la facoltà di scegliere liberamente l’argomento. Elissa decide di raccontare una vicenda ambientata in un monastero in Lombardia, che l’autore definisce famosissimo per santità e devozione (religione) in un’annotazione antifrastica che sicuramente cela l’ironia del contrasto tra apparenza e realtà. Per l’ennesima volta Boccaccio, dunque, assume come protagoniste persone del mondo ecclesiastico e le coglie in gesti e situazioni non precisamente canonici, escludendo però la nota pesantemente allusiva, pur nella sostanziale licenziosità delle situazioni. Si vedrà, inoltre che nulla più di un lieve sorriso va a sottolineare la dissonanza tra il comportamento delle monache e le regole della vita religiosa. Non c’è infatti polemica moralistica né scandalo, nella convinzione che la castità imposta alle monache sia inaccettabile, perché contro natura, contro il sano e naturale richiamo della carne.
Ma non è soltanto invenzione letteraria. È risaputo infatti che numerose tra le suore, forse la maggior parte, erano un tempo rinchiuse a forza sin da bambine, in assenza totale di vocazione ma in obbedienza a scelte altrui, che ignoravano il loro legittimo diritto alla vita e ne troncavano bruscamente i sogni. È questa la ragione per cui nei monasteri, dove appassivano tante esistenze sacrificate all’interesse ed alla convenienza sociale, fiorivano poi quotidianamente episodi e comportamenti trasgressivi, peraltro assolutamente comprensibili e direi addirittura giustificati. E così diffusi da risultare a loro volta paradigmatici.
Boccaccio certamente non ignora questa realtà, ne prende atto e la rappresenta realisticamente portandola davanti ai nostri occhi come un dato oggettivo. Tralasciando ovviamente qualsiasi considerazione sociologica, che non gli appartiene e non può appartenergli, data la cultura dell’epoca. È però significativo il modo in cui, con distacco e serena accettazione, racconta i fatti, di per sé “fuori norma”, ponendo l’esortazione finale a godere i piaceri dell’amore e del sesso addirittura in bocca alla badessa, ovvero proprio a colei che teoricamente, nell’esercizio del suo ruolo e delle sue funzioni, dovrebbe garantire il rispetto delle regole ecclesiastiche all’interno del convento, fornendo personalmente l’esempio di castità e moralità.
E non solo di parole si tratta, perché ovviamente è lei la prima ad applicare i sani precetti indicati alle consorelle. Nel corso della vicenda si rivelerà, quindi, non proprio così pia e virtuosa come comunemente si credeva, ma, nell’ottica boccacciana – e quindi del lettore – non c’è nulla di male: Madonna Usimbalda è una donna normale, forse non una santa ma neanche un mostro di corruzione. Infatti è perfettamente in grado di motivare le proprie azioni non quale cedimento alla debolezza umana, ma piuttosto come affermazione della naturalità dell’amore in tutte le sua manifestazioni. Ivi compreso il desiderio sessuale, che impone di essere soddisfatto proprio in nome di quella stessa naturalità. Tantomeno, allora, saranno colpevoli o corrotti la tenera suorina Isabetta e il suo bel giovanotto, colti nella piena vitalità della giovinezza e delle sue esigenze. Anzi, per loro non si tratta neppure di semplice attrazione: essi si amano davvero, mostrando in ciò animo nobile e sentimenti gentili, tali da riscattarsi, se mai ce ne fosse bisogno, dal livello della pura fisicità.I due giovani godono perciò di tutta la simpatia dello scrittore, perché Boccaccio addirittura ammira chi, indipendentemente dallo status e dalle condizioni esistenziali, ama e sa trovare forme e occasioni per godersi il proprio amore. A maggior ragione se l’esercizio di questi diritti così sani e naturali è costretto a farsi strada tra le difficoltà, in situazioni apparentemente non pertinenti, contro le convenzioni e il conformismo della società e della morale corrente. Appunto come avviene tra le mura di un convento.
È evidente in queste concezioni lo spirito di un’età di trapasso, in cui la cultura sta ormai abbandonando i principi teocentrici tipici della civiltà medievale, orientandosi in senso socialmente più dinamico e moralmente più disinvolto. L’atteggiamento laico e pragmatico di Boccaccio, la sua visione del mondo così possibilista, non più coercitiva e punitiva, ma già impregnata di ideali umanistici – condivisi con l’amico Petrarca – non sono solo il segno di una personalità individuale, ma di un’epoca che cambia.
Del resto, se sotto il sorriso di Messer Giovanni si può cogliere la sapiente esperienza dell’animo umano e degli impulsi che vi albergano e determinano atti e azioni, non si deve però credere che tutti i comportamenti siano da lui egualmente approvati. Pur nella sua tolleranza dell’immensa varietà delle cose umane, alcuni aspetti – quelli meno nobili o ingenerosi – possono essere accettati, ma non necessariamente approvati. Lo scrittore si limita a registrare: inserisce i dati nel suo personale repertorio, non giudica, né deplora, forse capisce ma non sempre condivide.
Così accade anche in questa novella, benché il tono generale non si discosti dal registro della leggerezza, che esclude la polemica più aspra, e benché, naturalmente la critica si manifesti contro non coloro che si rivelano capaci di amare, bensì nei confronti di chi, nei propri i atteggiamenti, si riveli meschino e poco cortese. È sottintesa infatti nel corso di tutta la narrazione una punta di per le suore invidiose e malevole, che sfocia esplicitamente nella battuta finale dopo essere stata più volte anticipata da sottili sfumature connotative nelle descrizioni dei gesti e dei movimenti. E poi soprattutto va ricordata la severa requisitoria iniziale affidata alla narratrice Elissa, contro gli stoltissimi che si vogliono porre come maestri e castigatori del prossimo, quando essi stessi non sono migliori. In questa critica è sintetizzata la morale, il messaggio dell’autore al suo pubblico, poi esplicitato nel corso della vicenda narrata tramite la dimostrazione della legittimità dell’amore e della conseguente l’infondatezza della rinuncia.
Pur incentrata sull’esaltazione dell’amore, la novella sfrutta tuttavia anche altri due temi fondamentali nell’opera boccacciana. Il primo riguarda la fortuna, ovvero la casualità, l’elemento imprevedibile ed incontrollabile che domina gli accadimenti terreni, rendendo spesso vani gli sforzi dell’umano agire, ma anche fornendo, occasionalmente, inaspettato sostegno al loro adempimento. L’altro è il tema della virtù, da intendersi come intelletto e industria, cioè l’intelligenza di chi sa elaborare un progetto ed escogitare le soluzioni per realizzarlo, o, all’occorrenza, per salvarsi in condizioni di pericolo e di disagio. In quest’ultimo caso può talvolta bastare semplicemente un motto arguto, la battuta giusta al momento giusto. Come infatti accade in questa novella, accomunabile dunque a tutte quelle della sesta giornata, interamente dedicata a chi con alcuno leggiadro motto, tentato, si riscosse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì di perdita o pericolo o scorno.
Per la verità il nucleo narrativo principale, persino lo stesso motivo che determinerà lo scioglimento della vicenda e il lieto fine non sono del tutto originali, essendo già stati trattati in vari testi sia latini (la Legenda Aurea, tra gli altri) sia volgari italiani e francesi, divenuti col tempo addirittura popolari nella cultura medievale. La rielaborazione boccacciana, tuttavia, è così armoniosa, sobria, efficacemente coinvolgente nel suo perfetto meccanismo narrativo da superare ampiamente gli antecedenti letterari. Per il ritmo dell’azione, per la gustosissima invenzione degli eventi, infine per la caratterizzazione dei personaggi, essenziale ma attentissima alle connotazioni psicologiche di gesti e comportamenti, la novella ha suscitato infatti l’ammirazione di critici di fama quali Baratto e Segre. Insomma, si può parlare di un “piccolo capolavoro”, dove l’aggettivo è dovuto soltanto alla brevità del testo.
Ma vediamo la storia. In un famosissimo convento in Lombardia vive una monaca, giovane di sangue nobile e di maravigliosa bellezza dotata, la quale Isabetta chiamata […].. Niente altro sappiamo di lei, ma la immaginiamo infelice per l’esistenza reclusa che è costretta a condurre, pensiamo ai sogni che insegue nelle sue tristi giornate prive dei legittimi piaceri della giovinezza. Finché un giorno… essendo un dì a un suo parente alla grata venuta, d’un bel giovane che con lui era s’innamorò; e esso, lei veggendo bellissima, già il suo disidero avendo con gli occhi concetto, similmente di lei s’accese.
È il colpo di fulmine, basta un gioco di sguardi per intendersi. Si vedono, si innamorano, si desiderano. Ma la vita in convento non favorisce ovviamente gli incontri amorosi, come rileva l’autore, che non manca di sottolineare la sofferenza dei due giovani: e non senza gran pena di ciascuno questo amore un gran tempo senza frutto sostennero.
Un sogno bello ed impossibile, allora? No. Bello e possibile. L’amore sollecita nei due innamorati l’industria in grado di trovare la via per realizzare i loro scopi. Infatti: Ultimamente, essendone ciascuno sollecito, venne al giovane veduta una via da potere alla sua monaca occultissimamente andare; di che ella contentandosi, non una volta ma molte con gran piacer di ciascuno la visitò.
Per qualche tempo tutto sembra filare liscio: gli incontri si susseguono con loro grande piacere, alimentando una felicità che non sorge soltanto dalla soddisfazione dei sensi, ma anche dall’appagamento di un sentimento forte e vero. Sono appuntamenti notturni tanto appassionati quanto segreti, ma di una segretezza troppo precariamente mantenuta. Non è facile nascondere le proprie azioni, nella promiscuità di un microcosmo comunitario quale è un convento, specie nell’inevitabile sventatezza dell’incantamento amoroso. E soprattutto se quelle azioni comportano trasgressioni tali da suscitare pruriginose curiosità e malevole invidie in una collettività reclusa e sostanzialmente repressa.
Infatti ben presto i furtivi movimenti che avvengono nella cella di Isabetta verranno alla luce, e non saranno né taciuti né tollerati: Ma continuandosi questo, avvenne una notte che egli da una delle donne di là entro fu veduto, senza avvedersene e egli o ella, dall’Isabetta partirsi e andarsene. Il che costei con alquante altre comunicò; e prima ebber consiglio d’accusarla alla badessa, la quale madonna Usimbalda ebbe nome, buona e santa donna secondo la oppinion delle donne monache e di chiunque la conoscea; poi pensarono, acciò che la negazione non avesse luogo, di volerla far cogliere col giovane alla badessa; e così taciutesi, tra sé le vigilie e le guardie segretamente partirono per incoglier costei.
L’ambientazione notturna, che caratterizza l’intera novella, ci mostra dunque un godibilissimo “giuoco delle parti”, in cui un drappello di monache tutte comprese nel loro ruolo di inquisitrici animate dal sacro fuoco della delazione (che ha il sapore di una piccata rivalsa nei confronti della giovane Isabetta, tanto più fortuna di loro) si mette all’opera con un ardore che sarebbe encomiabile, se l’origine no n fosse alquanto sospetta. È infatti l’invidia, ben più forte della correttezza o della convinzione morale, il sentimento che spinge la monaca che ha scoperto la relazione di Isabetta a confidarsi con le consorelle, è l’invidia che spinge tutte loro a decidere insieme la strategia migliore per informare la badessa, da tutte ritenuta fulgido esempio di virtù.
Sorpresi i due amanti grazie ai dunque turni di guardia sapientemente programmati, mettono dunque a punto la mossa tattica di dividersi in due gruppi, l’uno posto a sorveglianza dei colpevoli, l’altro spedito in delegazione ad avvertire la superiora. È un piccolo esercito compatto e puntiglioso, che si muove furtivamente nel buio notturno del convento, animando celle e corridoi di bisbigli e sussurri. Le decisioni sono corali, movimenti sicuri, le azioni rapide e disciplinate:
Or, non guardandosi l’Isabetta da questo né alcuna cosa sappiendone, avvenne che ella una notte vel fece venire, il che tantosto sepper quelle che a ciò badavano; le quali, quando a lor parve tempo, essendo già buona pezza di notte, in due si divisero, e una parte se ne mise a guardia dell’uscio della cella dell’Isabetta e un’altra n’andò correndo alla camera della badessa;
Il commento dello scrittore si intravvede nell’uso – certamente ironico – di termini specifici del linguaggio militare (vigilie, guardie, incogliere) per descrivere lo zelante organizzarsi delle monache, determinate e solidali nella loro volontà di intervento e punizione, che della carità cristiana non ha nemmeno l’odore. Sorpresa nel cuore della notte dal bussare delle zelanti monachelle all’uscio della sua cella, Madonna Usimbalda è stupita e allarmata. E non perché il suo sonno sia stato proprio interrotto… Infatti: Era quella notte la badessa accompagnata d’un prete il quale ella spesse volte in una cassa si faceva venire. La quale, udendo questo, temendo non forse le monache per troppa fretta o troppo volonterose tanto l’uscio sospignessero, che egli s’aprisse, spacciatamente si levò suso e come il meglio seppe si vestì al buio[…]
Possiamo immaginare il disappunto della suora, sorpresa in un delicato momento di intimità con “cotanto amante”. Per la verità, Boccaccio non si esprime in proposito, rinunciando, coerentemente con lo stile di tutta la novella, ad ogni annotazione apertamente erotica; ma non ci dice nemmeno che i due stessero dormendo, e la prontezza della reazione sembrerebbe proprio escludere questa seconda ipotesi.
Dunque, chiamata al dovere dalle sue pecorelle, affinché intervenga a fare giustizia punendo la colpevole, Usimbalda si alza e si veste…ma: credendosi torre certi veli piegati, li quali in capo portano e chiamangli il saltero, le venner tolte le brache del prete; e tanta fu la fretta, che senza avvedersene in luogo del saltero le si gittò in capo e uscì fuori e prestamente l’uscio si riserrò dietro dicendo: “Dove è questa maladetta da Dio?”
Le monache non si accorgono di nulla: tutte prese dall’avvicinarsi del loro momento di riscatto, non badano certo all’abbigliamento della badessa. Ed ecco il piccolo esercito in marcia per la sua straftspedition: E con l’altre, che sì focose e sì attente erano a dover far trovare in fallo l’Isabetta, che di cosa che la badessa in capo avesse non s’avvedieno, giunse all’uscio della cella, e quello, dall’altre aiutata, pinse in terra: e entrate dentro nel letto trovarono i due amanti abbracciati.
Per Isabetta e il suo innamorato la situazione si fa incresciosa: colti alla sprovvista, non sanno reagire e sono facilmente preda delle inquisitrici; lei è condotta nella sala del capitolo come un delinquente in attesa di giudizio, lui è lasciato a soffrire da solo nella cella, ad aspettare la sentenza con la morte nel cuore. In questo frangente, le elucubrazioni del giovane non sono certo improntate a devozione e pentimento, tanto meno a rassegnazione, e proprio per questo egli risulta tanto più vicino e umano, provocando in noi un moto di simpatia e solidarietà. Il suo atteggiamento conferma infatti l’amore per Isabetta, ed egli arriva persino a contemplare l’ipotesi di un’azione di forza per rapirla dal monastero: Il giovane s’era rimaso; e vestitosi aspettava di veder che fine la cosa avesse, con intenzione di fare un mal giuoco a quante giugner ne potesse, se alla sua giovane novità niuna fosse fatta, e di lei menarne con seco.
Intanto, procede il solenne processo contro la ragazza: La badessa, postasi a sedere in capitolo in presenzia di tutte le monache, le quali solamente alla colpevole riguardavano, incominciò a dirle la maggior villania che mai a femina fosse detta, sì come a colei la quale la santità, l’onestà, la buona fama del monistero con le sue sconce e vituperevoli opere, se di fuor si sapesse, contaminate avea: e dietro alla villania aggiugnea gravissime minacce.
In realtà, c’è poco da accusare e minacciare, e non solo perché il pubblico ministero non è migliore dell’imputata, ma anche perché non può mantenere un briciolo di credibilità, con quel copricapo in testa.
Ora infatti la scena si tinge di toni surreali ed ottiene effetti esilaranti. Il lettore sa quello che Usimbalda e le monache punitrici ignorano, lo sa e ghigna, aspettando il tonfo della badessa dal trono della sua ambigua virtù, un ignobile capitombolo che castighi giustamente, non la sua trasgressione amorosa, ma l’ipocrisia e la supponenza del l’atteggiarsi a giudice e porsi come modello esemplare. È questo il gioco dello scrittore col suo pubblico, l’intrattenimento arguto, la strizzatina d’occhio che non si sofferma su doppi sensi o allusioni oscene, ma sfrutta elegantemente la sorridente intesa, la attesa sagace dell’evolversi della situazione.
Infatti…Mentre le consorelle sono intente ad ascoltare le parole della superiora, parole tanto crudeli da indurre un moto di compassione persino in quegli animi esacerbati dall’invidia e dall’astinenza, Isabetta invece… […] multiplicando pur la badessa in novelle, venne alla giovane alzato il viso e veduto ciò che la badessa aveva in capo e gli usulieri che di qua e di là pendevano: di che ella, avvisando ciò che era, tutta rassicurata disse: “Madonna, se Dio v’aiuti, annodatevi la cuffia e poscia mi dite ciò che voi volete.”
È fatta. Compresa immediatamente la situazione, la giovane monaca, intelligente, oltre che bella ed appassionata (e sappiamo che per Boccaccio questa è una grande virtù), coglie al volo l’occasione che la porterà fuori pericolo. Alla rabbiosa, quanto falsa, requisitoria della badessa, ora infatti può contrapporre serafica un bel motto che sarà appunto la sua salvezza.
Detta e ripetuta, quella frase (destinata a diventare quasi proverbiale) “Madonna, se Dio v’aiuti, annodatevi la cuffia”avrà la forza di sbloccare la situazione a suo completo favore: laonde molte delle monache levarono il viso al capo della badessa e, ella similmente ponendovisi le mani, s’accorsero perché l’Isabetta così diceva.
Invano Usimbalda cercherà di mantenere la propria autorevolezza: quando le altre monache, indotte dalle parole di Isabetta, alzano gli occhi alla “cuffia” e intuiscono il fattaccio, e lei stessa si accorge della situazione, non c’è più nulla da fare. L’atmosfera inquisitoria risulta insostenibile, l’accusa si dissolve come neve al sole, in fallo ora si trova proprio chi appariva al di sopra di ogni sospetto e, forte delle apparenze nonché del proprio ruolo, riteneva di poter giudicare, colpire, punire.
Ma bisogna comunque dar atto alla badessa – che non deve essere una sprovveduta, se è in grado di guidare un convento famoso e celebrato – di saper aggiustare il tiro con rapidità e scaltrezza: vistasi scoperta nel suo segreto, subito converte quella che era cominciata come una durissima reprimenda in un esplicito e pubblico invito ad abbandonarsi con serenità e letizia alle lusinghe dell’amore e ai piaceri dei sensi. Unica condizione: riservatezza e discrezione, a salvaguardia del buon nome del monastero. Per il resto nessuna remora, nessun impaccio moralistico, nessun impedimento religioso: solo la razionale e realistica constatazione delle esigenze umane e la ribadita legittimità degli istinti naturali.
E così siamo giunti al lieto fine della vicenda: Isabetta è lasciata libera di godersi il suo amante, mentre le raccomandazioni della superiora sono prontamente accolte dalle altre monache, che forse, superata l’iniziale frustrazione, potranno rivelarsi in futuro meno acide ed invidiose.
Di che la badessa, avvedutasi del suo medesimo fallo e vedendo che da tutte veduto era né aveva ricoperta, mutò sermone e in tutta altra guisa che fatto non aveva cominciò a parlare, e conchiudendo venne impossibile essere il potersi dagli stimoli della carne difendere; e per ciò chetamente, come infino a quel dì fatto s’era, disse che ciascuna si desse buon tempo quando potesse; e liberata la giovane, col suo prete si tornò a dormire, e l’Isabetta col suo amante. Il quale poi molte volte, in dispetto di quelle che di lei avevano invidia, vi fé venire; l’altre che senza amante erano, come seppero il meglio, segretamente procacciaron lor ventura. –
Le battute finali di Usimbalda sintetizzano ovviamente il pensiero di Boccaccio, mai abbastanza ribadito in tutto il Decameron.
Che dire di più? A noi non resta che farlo nostro, allora. Come le monachelle di Lombardia, abbandoniamoci all’amore, con l’augurio che ciascuno possa godere di questo sentimento nel modo più gratificante possibile.
Ricordandosi, però, che non tutto è amore. Questo, per esempio non lo è di sicuro: