L’evento
Pienone martedì 18 febbraio nella sala dell’Emeroteca per un nuovo appuntamento promosso ed organizzato dalla Biblioteca in collaborazione con l’Associazione degli Amici, che ha saputo mobilitare moltissimi partecipanti, come sempre accade, del resto, quando si offre al pubblico un’occasione culturale di grande rilevanza e spessore. A conversare con i lettori questa volta è arrivato nientemeno che Maurizio De Giovanni, lo scrittore napoletano i cui libri stanno ormai ai stabilmente ai vertici delle classifiche delle vendite e continuano a collezionare premi e riconoscimenti. E sono anche tra i più richiesti nelle biblioteche: provare per credere, semplicemente consultando i cataloghi on line.
Nell’ambito di un tour promozionale nel Nord Italia organizzato da Einaudi, editore presso cui escono le opere di De Giovanni, l’autore dunque ha voluto presenziare anche ad un serata a Spinea, includendola fra le tappe del suo percorso.
Grazie allora a Paola Marchetti direttrice della Biblioteca e alla preziosa Antonella Bullo, che hanno reso possibile ospitare l’evento. E grazie soprattutto all’amica Marisa Negrato, che, a partire dalla proposta iniziale, tanto si è adoperata affinché questo incontro avesse effettivamente il modo di realizzarsi. Per la verità l’invito era stato inizialmente pensato come completamento e approfondimento delle letture del gruppo L’Italia in giallo coordinato da Carlo Marchiori, che ha inserito tra i titoli in programma per l’annata 2013/14 il suo Buio, l’ultimo libro di De Giovanni; successivamente, però, la notorietà dell’autore e la consapevolezza della sua cordiale disponibilità, hanno portato ad estendere la possibilità di partecipazione ad un pubblico più vasto, che in effetti è intervenuto numeroso, nonostante la concorrente suggestione (?) di intrattenimenti concomitanti (leggi Sanremo).
E ne è valsa veramente la pena, perché questo è stato uno di quegli eventi che non soltanto suscitano interesse nel corso nel loro svolgimento, ma lasciano poi traccia indelebile, rimanendo nella memoria come un arricchimento concreto e permanente, per il piacere che hanno provocato, certo, ma anche e soprattutto per l’insegnamento e gli spunti di riflessione che hanno saputo fornire. E per di più, nella forma più gradevole ed accattivante, con leggerezza e irresistibile simpatia.
Dopo i saluti di rito da parte delle autorità e degli “addetti ai lavori”, seguiti dalla presentazione di una selezione di brani dai romanzi, a cura di alcuni volontari del Gruppo di Lettori ad alta voce (Mariolina Burattini, Maria Luisa, Solito, Lorenzo Scatto), finalmente ha preso la parola lui. E allora… Che dire di un vulcano in eruzione? Reduce da un pomeriggio veneziano probabilmente pesante, forse stanco, ma non affaticato né minimamente toccato nella sua verve, Maurizio infatti ha travolto e conquistato tutti con la sua personalità esuberante, la torrenziale capacità di affabulazione, il gusto dell’ironia. Il successo della serata è tutto suo: senza nulla togliere all’impegno degli organizzatori e alla calda partecipazione del pubblico, bisogna riconoscere che il merito infatti va tutto a lui se l’incontro è stato così interessante, coinvolgente, a tratti irresistibilmente divertente. Con la speranza di non essere fraintesa, per definire De Giovanni oserei il termine istrionico, attribuendovi connotazioni esclusivamente positive, grazie ad un ‘infinita riserva di aneddoti gustosi e all’innegabile sapienza del raccontare. Ma, alla fine, quello che poi ha davvero colpito, oltre la carica spettacolare del personaggio, sono la serietà degli ideali, la cultura dell’uomo, la profondità del pensiero, la capacità davvero rara di porgere in modo lieve temi e riflessioni tutt’altro che semplici o superficiali.
Universo Italia: l’unità che non c’è?
Già il saluto di Maurizio De Giovanni è molto di più di un semplice scambio di cortesie, il semplice preambolo dettato dalla buona educazione. È invece una validissima presa di posizione ed insieme una il biglietto da visita non tanto dello scrittore, quanto dell’uomo di colto e sensibile che, con adesione cordiale e direi persino affettuosa incontra il suo pubblico esprime accomunate dall’interesse per la di letteratura, sì, ma certamente eterogenee per provenienza, tradizione, storia personale e collettiva. Lui, napoletano, si è infatti dichiarato ben felice di incontrare gente del Nord (anzi, del famoso o famigerato Nord Est!), che è – o si vuole che sia – idealmente tanto lontana e culturalmente diversa.
Queste considerazioni, che puntano sulla necessita di ritrovare – o almeno cominciare a cercare – un senso di appartenenza comunitaria, risultano tanto più pertinenti e valide in una società come quella odierna, ormai del tutto disgregata e malata. Dove, a seguito di trasformazioni economiche, culturali ed etniche sempre più rapide e sempre più insoddisfacenti, si affermano ovunque stili di vita dissociati un tempo impensabili. Nelle comunità umane, grandi o piccole che siano, l’esistenza non è più la stessa: c’è molto più rumore e quasi più nessun dialogo. Siamo circondati da gente di ogni provenienza, ma viviamo tutti più isolati e più soli. Persino in una città ad alta intensità partecipativa come Napoli, dove fino a qualche decennio fa nascite, morti, matrimoni e separazioni non erano fatti privati individuali, bensì accadimenti appannaggio di un intero vicolo, oggi silenzio ed assenza hanno preso il posto della comunicazione. E questo non significa sempre riservatezza: spesso è sinonimo di indifferenza e disinteresse.
Eppure dolore e sofferenza oggi, quanto e più di ieri, avvelenano l’esistenza della gente benché solitamente mascherati sotto il velo della normalità. Senza un gesto, una parola da chi sa, vede e tace. In nome della privacy, ci si gira dall’altra parte. E così, solo perché si preferisce evitare di compromettersi, si finisce per ignorare che la partecipazione altrui, anche la più invadente, può essere un’ancora di salvezza per chi si trova in difficoltà, laddove la discrezione può uccidere. E non è una metafora. Perché nella società contemporanea violenza e sopraffazione sono purtroppo all’ordine del giorno, aggravate ed incrementate dall’insoddisfazione e dalla rabbioso senso di impotenza generati dalla crisi in atto. E a subire, naturalmente sono i più deboli, gli indifesi, gli innocenti: le donne, e soprattutto i bambini, inermi di fronte a qualsiasi abuso. In altri termini, con altro stile, sono però gli stessi concetti espressi da Massimo Carlotto a proposito delle sue Vendicatrici.
Maurizio De Giovanni si impone soprattutto per la capacità di comunicare il senso del dolore: descrive questa situazione, segnala il problema, esprime il suo disagio, con una nota di apprensione nella voce, che si intuisce del tutto sincera. Se i suoi libri sono quasi la trasposizione narrativa di una pagina di cronaca nera, quella che tutti noi possiamo leggere quotidianamente su qualsiasi giornale – senza che con ciò ne venga sminuita la valenza artistica – è perché anche questa può essere una forma di intervento con cui si può operare per demolire la cappa del silenzio che soffoca il respiro della solidarietà.
Elogio della lettura
È a questo punto si entra nel vivo della discussione letteraria. Definendo se stesso lettore prima che scrittore, Maurizio De Giovanni apre la sua conversazione con un elogio entusiastico, e certamente sincero, della lettura, secondo lui attività creativa stimolante quanto la scrittura, diversamente dalla visione di un film o di uno sceneggiato, che pure, come la scrittura, raccontano storie. Sono valutazioni oggettive, che muovono dalle diverse modalità di comunicazione e di fruizione di queste due forme espressive e non implicano alcun giudizio di valore sui rispettivi prodotti. Esistono infatti libri brutti e film bellissimi, questo nessuno può negarlo. Ma il concetto è sempre lo stesso: chi legge inventa nel proprio immaginario personaggi, scene, ambienti; esplora paesaggi e città; ne ode le voci, i suoni, i rumori, ne sente gli odori e i profumi. Percepisce le vibrazioni della luce, le ombre, il buio; segue il succedersi delle stagioni, coglie il variare dei colori, sulla propria pelle prova il calore del sole o il morso del gelo, la carezza del vento o il bacio della pioggia. E insieme ai personaggi vive amori, paure, desideri. A partire dalla pagina che lo scrittore ha creato per lui – anche per lui come per mille altre persone, perché il libro è un tesoro che non si esaurisce mai – il lettore è libero di costruirsi un mondo personale, soggettivo ed autonomo. L’autore saprà raccontare o descrivere nel dettaglio, ma solo al lettore è dato di definire dentro di sé immagini, atmosfere e sensazioni. E questa immensa, impagabile prerogativa è solo sua. Allo spettatore infatti non è concesso inventare nulla: quello che regista e sceneggiatore hanno voluto e creato si presenta irrimediabilmente compiuto e completo. L’opera rappresentata, soprattutto cinematografica o televisiva (forse più di quella teatrale, viste le diverse risorse tecnologiche) è autosufficiente e perciò chiusa ed immutabile. I personaggi hanno – e possono avere – solo i volti, le voci, i gesti degli attori che li interpretano. E lo stesso vale naturalmente per tutti gli altri elementi del discorso filmico, dalla location alla colonna sonora. Non è in discussione il valore dell’opera: questa può avere la forza di interessare, educare, appassionare, commuovere, stupire, indignare. E può far sognare, naturalmente. Ma non potrà mai lasciare spazio all’immaginazione: tutto è già lì, formato e definito una volta per tutte. Non è in suo potere permettere alla fantasia di volare. Solo il libro consente questo miracolo. Perché solo il libro ti porta via con sé in un viaggio ogni volta diverso dove il lettore appassionato, biblionauta avventuroso e infaticabile, percorre strade sempre nuove, vede terre diverse ed esplora mondi ignoti. Compreso quello che ha dentro di sé e che forse, fra tutti, è il più sconosciuto…
La scrittura: le tappe di un percorso
Maurizio De Giovanni, dunque è sempre stato un grande lettore, ed anzi proprio dalla lettura è derivata la scoperta della vocazione alla scrittura. Veramente il termine vocazione a lui forse potrebbe sembrare eccessivo, anzi, a giudicare dal piglio autoironico che lo contraddistingue immagino che, se lo sentisse, se ne uscirebbe in una bella risata. Il fatto è che la “chiamata” è arrivata tardi, quando un Maurizio quasi cinquantenne viveva tranquillamente la sua esistenza, contento del suo lavoro, degli affetti, degli interessi. Ed anche della passione letteraria, intesa però nel senso di una attività di lettura costante, intensa, onnivora e vorace. Insomma da fruitore piuttosto che da produttore, senza alcuna velleità o sospetto delle proprie potenzialità come autore. Per questo oggi, pur con tanti successi al proprio attivo, egli sostiene di non aver talento e si definisce modestamente un semplice artigiano della scrittura: perché, se il talento c’è, si manifesta sin dalla giovinezza come una pulsione irrefrenabile, un bisogno non controllabile di esprimersi e raccontare, elaborando quel peculiare modo di porsi narrativamente che noi definiamo stile.
Per lui le cose sono andate diversamente. A suo dire, De Giovanni infatti sarebbe diventato scrittore per caso, contro ogni aspettativa e senza premeditazione, trovandosi poi, quasi suo malgrado, a percorrere in brevissimo tempo una strada tutta costellata da positivi riconoscimenti di pubblico e di critica. Io però, a questo proposito, non credo che tutto ciò possa avvenire in assenza di talento, proprio considerando la facilità e la velocità dei ritmi produttivi, oltre al gradimento dei lettori, più ancora che dei cosiddetti “esperti”. Penso piuttosto che il talento ci sia sempre stato, esplicato però, per anni, esclusivamente nel racconto orale, nella percezione del raccontare come un fatto ovvio e normale della vita quotidiana: erano o diventavano racconti le chiacchiere fra colleghi, le conversazioni con gli amici, le storie narrate da sempre ai figli, presenza forte e predominante nell’universo affettivo di De Giovanni.
Mancava ancora, in questa fase, la consapevolezza di poter giungere alla scrittura, la coscienza che il passaggio dall’oralità alla scrittura non è poi così impervio o inconsueto, se quella narrazione è un’abilità e quasi un’esigenza, una pratica quotidianamente applicata, quindi, a tutti gli effetti, un vero talento. Per scoprirlo, e scoprirsi, De Giovanni ha avuto bisogno di un intervento esterno, dell’iniezione di fiducia che soltanto l’apprezzamento altrui può dare. Ma non dimentichiamo che quell’apprezzamento non può prescindere dai testi e che il grande, grandissimo successo, fosse anche favorito dal supporto degli editori, viene sempre e comunque dopo di questi, né potrebbe esistere se i libri non fossero stati scritti e se non fossero piaciuti. Insomma, Maurizio ha l‘aria di non prendersi troppo sul serio, ma il talento indubbiamente c’è, e sospetto che in fondo lo sappia bene anche lui. Che peraltro – non per caso – spende la propria immensa riserva di energia non soltanto nella narrativa, ma anche nella graphic novel, nel teatro e nella sceneggiatura.
Resta comunque esilarante la ricostruzione dei primi passi della sua ascesa letteraria fatta nel corso del suo intervento a Spinea, in cui, grazie alla sua capacità affabulatoria, assistiamo ad una scena spassosissima, anzi una successione di scene e di ritratti che zampillano uno dall’altro come i fuochi d’artificio. All’effetto comico irresistibile contribuiscono naturalmente una parlata ricca e saporosa, e con una gestualità tutto sommato sobria, ma efficacissima, in cui ironia ed autoironia dominano incontrastate.
Il tutto comincia praticamente per caso nel 2005, quando a sua completa insaputa, Maurizio de Giovanni viene iscritto ad un concorso nazionale per giallisti esordienti promosso dall’Europeo . Concorso che ovviamente vincerà, passando prima la selezione napoletana con il racconto L’omicidio Carosino, poi sbaragliando tutti gli avversari alla finale fiorentina con I vivi e i morti.
Intanto il romanzo Le lacrime del pagliaccio, che, rielaborato, diventerà poi Il senso del dolore lo fa apprezzare da Francesco Pinto, direttore della RAI di Napoli, che lo segnalerà ai responsabili della Fandango, destinata a diventare la sua prima casa editrice. Impagabile il resoconto dell’incontro col produttore, in cui un emozionatissimo vestito da rappresentante della Folletto, incravattato e fresco di barbiere, si presenta da un Domenico Procacci vestito da… Procacci: ovvero l’essenza dell’informalità. Grazie alle entusiastiche aspettative dell’editore, fondate sul presupposto che nel cassetto ci siano chissà quanti romanzi in attesa di venire alla luce, presupposto che lui, De Giovanni, non si sente di smentire, di fatto gli viene chiesto a sfornare titoli a ritmo serrato. E così uno stupefatto Maurizio si mette in ferie, si chiude in casa e, morto per il mondo, scrive, scrive, scrive. Venti giorni per ogni libro, prodotto praticamente in apnea, con un lavoro matto e disperatissimo.
La serie del commissario Ricciardi
Nasce in questo modo, quasi per caso, la bellissima serie del commissario Ricciardi, articolata nei due cicli delle Quattro stagioni e delle Festività (quest’ultimo uscito presso Einaudi). Ed è il successo.
Come si sa, l’ambientazione si colloca negli anni Trenta, durante il ventennio fascista. Non si tratta però di una decisione premeditata, dovuta ad un particolare interesse per quel periodo o alla volontà di caricare il romanzo poliziesco di un inusuale impegno storicistico. Su questo punto De Giovanni è chiaro (ahimè, mandando in pallone tutte le mie erudite domande sulla valenza culturale della faccenda). Semplicemente si è trattato della prosecuzione della location già presente nel primo fortunato racconto scritto in diretta ad un tavolo del Gran Caffè Gambrinus, dove si teneva la fase napoletana del primo concorso. Si tratta di un locale storico con arredi liberty: da qui appunto l’idea – del tutto estemporanea – dell’ambientazione d’epoca. E poiché il motivo ispiratore principale si deve ad una zingarella che, attraverso la vetrina, guardava, come pesci in un acquario, i concorrenti immersi nella scrittura, questo diventerà un motivo ricorrente della serie. C’è infatti sempre una bambina nelle storie di Ricciardi, un ricordo, quasi un omaggio affettuoso alla monella che a lui, unico ad averla notata, aveva riservato l’esclusiva di una boccaccia prima di andarsene per la sua strada. senza sapere di essere diventata la sua piccola musa.
La casualità della scelta iniziale per l’ambientazione storica non esclude naturalmente la necessità della precisione documentaria, come lo scrittore ha avuto modo di comprendere ben presto. Ecco dunque, dopo il primo titolo, la rigorosissima ricerca documentaria d’archivio che, grazie anche all’aiuto di preziosi collaboratori, l’ha portato a conoscere particolari inediti ed interessantissimi della vita quotidiana del Ventennio. Vita di gente comune, naturalmente, quella della strada e dei vicoli, lontana dal potere e dalle logiche del comando, ma vera e sana, con i suoi sentimenti, i suoi (tanti) dolori e le sue (poche) speranze. Che è poi quella che gli interessa di più.
Il punto di forza di questi romanzi è però il protagonista, ovvero il commissario Ricciardi, che forse tanto comune non è, ma è stato subito amatissimo dal pubblico per essere una figura nobile e carismatica, sì, ma anche introversa, dolente, sensibilissima. E soprattutto dotata di un sua personalissima capacità di dialogo con la morte. La serialità delle storie lo rende riconoscibile agli occhi del pubblico, e dunque atteso, seguito, approvato o disapprovato nelle sue scelte e decisioni, forse più nell’ambito privato che in quello professionale. In altri termini: la serialità, oltre il valore intrinseco delle opere, ha portato a De Giovanni la notorietà e l’abbraccio della gente, i lettori, che, come se Ricciardi fosse vivo e reale, ne hanno seguito, accettato o criticato le vicende, imputando allo scrittore meriti e demeriti di tutto quanto è parso negativo o sbagliato nella vita del suo eroe. Che eroe non doveva essere, ma tale è diventato.
Da Ricciardi ai Bastardi
Eppure, nonostante tutto, il successo, l’apprezzamento, i premi e i riconoscimenti che gli ha procurato, ad un certo punto De Giovanni ha abbandonato il suo Ricciardi, ed è passato oltre, approdando alla scrittura di romanzi di ambientazione contemporanea. La nuova fase si apre con Il metodo del coccodrillo, in cui per la prima volta compare l’ispettore Lojacono, siciliano di Agrigento trasferito a Napoli in conseguenza di una accusa, falsa e mai provata, di collusione con la mafia. La vera meta, però, si raggiunge con il secondo libro, I Bastardi di Pizzofalcone, con cui De Giovanni inaugura un genere inedito per l’Italia, il “poliziesco di squadra”, in cui il racconto si fa corale e parla di crimini e delitti, ma anche di tanti episodi di vita ordinaria, in cui vittime, colpevoli, poliziotti, magistrati e semplici spettatori sono accomunati da un destino di sofferenza e disagio.
Modello ideale sono i gialli dell’ammiratissimo Ed Mc Bain (1926-2005), in realtà Salvatore Albert Lombino: Mc Bain infatti è soltanto uno dei cinque pseudonimi con cui lui, figlio di genitori lucani immigrati negli Stati Uniti, firmava le proprie opere. Tra queste si impone – geniale ed insuperabile, secondo il giudizio di De Giovanni – la copiosissima serie dell’ 87° Distretto, il primo ed indimenticabile amore letterario dello scrittore napoletano. Anche qui si raccontano vicende criminali, inserite in un contesto comune e quotidiano, dove anche i poliziotti, finalmente, smettono il travestimento da eroi e indossano i panni sempre un po’ logori della gente normale. Con tutto ciò che ne deriva.
Non è il caso di soffermarsi sulla serie dei Bastardi: chi è interessato potrà, se vuole, trovare alcune recensioni in questo stesso blog, nella rubrica Letture in giallo. Basti qui osservare che il commissariato di Pizzofalcone, effettivamente esistente nella realtà, ben si presta a fungere da contenitore e location per la rappresentazione di quella massa disgregata e indifferente che è diventata ormai Napoli, perché in un’area relativamente limitata, dalla collina al mare, varie comunità eterogenee e non comunicanti si susseguono e si affrontano senza dialogare. In questo spazio trovano posto tutte le categorie sociali, tutte le condizioni economiche e professionali, ma ciascuna di esse, oggi, appare deformata, svilita ed incattivita. La zona più misera e popolare dei Quartieri Spagnoli, tradizionalmente problematica, è stravolta dall’immigrazione, naturalmente anche clandestina; la borghesia di Chiaia è impoverita, attanagliata dalla crisi che porta fallimenti e disoccupazione; l’élite aristocratica di via Caracciolo stenta a trovare una funzione sociale che le offra una qualche attribuzione di senso.
Questo è dunque il contesto in cui si muovono i poliziotti di De Giovanni, un contesto reale trasformato dallo scrittore in un microcosmo dove proiettare le storie di un’intera città. Perché secondo lui la narrativa ha – e deve avere – il ruolo di rappresentare, rielaborata in forma artistica, la verità della vita, la cangiante configurazione di una società in piena evoluzione, dove il ritmo delle giornate è cambiato, e non in meglio.
Egli dunque rifiuta l’autobiografismo, la chiusura nella auscultazione di sé univoca ed asfittica, convinto che lo scrittore debba uscire dal proprio io e raccontare le storie degli altri. Sono gli altri quelli che contano, che devono essere considerati, ascoltati, capiti e rappresentati. Con la loro sofferenza di vittime, con le loro pulsioni distorte di criminali.
È proprio il lato oscuro dell’animo umano quello che sta a cuore a De Giovanni, il quale – preferendo definire i propri libri noir piuttosto che gialli – dichiara di non avere mai inteso privilegiare nelle proprie storie l’aspetto strettamente investigativo, quanto quello psicologico e sociale. Non gli interessa, insomma, catturare l’attenzione del lettore fino alla scoperta di chi abbia commesso il delitto, ma piuttosto di portarlo progressivamente a capire perché quel delitto sia stato commesso, quali siano state le motivazioni, anche inconsce, ma certamente catalizzate da condizioni esistenziali problematiche, che hanno spinto qualcuno ad agire, hanno fatto prendere un’arma, picchiare una donna, abusare di un bambino. La raccolta dei dati oggettivi, le prove, i fatti concreti e inconfutabili sono appannaggio degli investigatori e dei magistrati, ma non della letteratura. Quando quegli investigatori hanno scoperto e magari arrestato un colpevole, quando ne hanno dimostrato la colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, hanno finito il loro lavoro, il caso è chiuso. Ma è qui che allora interviene la letteratura. Da qui parte il suo ruolo di tessitrice di trame, che ricostruisce, collega, spiega e approfondisce quello che gli addetti ai lavori istituzionali non fanno e non possono fare. La sua materia sono i meccanismi nascosti delle azioni umane, quelle devianti, ed anche quelle apparentemente normali. Questo fa la narrativa: racconta storie, fa percepire il pulsare dei sentimenti, pone in primo piano la polvere della strada, lo strepito del traffico, e magari il crepitare delle armi. Nera è l’anima della città, nera è la sostanza delle opere di De Giovanni.
Ma per finire l’atmosfera si allegerisce. Sollecitato dal pubblico, lo scrittore chiude con un’ultima battuta non su Napoli, ma sul Napoli. Qui però qui si entra nella sfera del sacro, e quindi, come Dante in Paradiso, siamo … all’ineffabilità.