Gruppo di lettura Uno. Spunti di riflessione di Gianni Ursotti su “Il senso dell’elefante” di Marco Missiroli

Appunti dai Gruppi di Lettura

Nell’incontro di febbraio, il Gruppo di Lettura UNO ha discusso “Il senso dell’elefante” di Marco Missiroli; per continuare la discussione anche qui nel blog, ecco alcuni spunti scritti da Gianni Ursotti.

Come gruppo, quest’anno, ci è capitata una scaletta di letture in crescendo. Siamo passati dalla cattiveria della figlia verso la madre nevrotica in “Il ballo” della Némirovski alla scoperta di un diverso modo di vivere accanto al figlio disabile in “Nati due volte” di Pontiggia.
copertina del libro Il senso dell'elefanteIl libro di Misssiroli rappresenta l’apice, con una summa di situazioni estreme che si concretizzano nell’atto d’amore della eutanasia, nel donare, come da etimo greco, la morte serena e indolore. Per fortuna sia “L’isola di Arturo” della Morante che “Papà Goriot” di Balzac – gli ultimi due testi del programma – rientrano in una specie di normalità, pur patologica nel primo e quasi banale nel secondo.
Ma andiamo con ordine.
Intanto c’è da dire che al di là dei premi ricevuti – che spesso rispondono solo a logiche commerciali – Missiroli ha mostrato una bella evoluzione; scritto a soli 31 anni, Il senso dell’elefante” rappresenta il raggiungimento della maturità narrativa. In esso, secondo me, vi sono condensati i caratteri presentati separatamente nei suoi libri precedenti “Senza coda” con la tristezza del bambino senza madre che rifiuta il mondo adulto; “Il buio addosso” con l’amore del padre verso la figlia disabile, risparmiata dalla morte prevista dalla sua società, e il riscatto di questa; “Bianco” con il vecchio che rivisita la propria vita, vissuta contro il diverso, e che scopre l’amore nel nome della moglie perduta.
Faticavo a cogliere il significato del titolo, ma al cap. 31 “Il senso dell’elefante” si è chiarito: è la devozione di tutti i padri verso tutti i figli. L’ho trovato divertente in alcuni passaggi, poetico ma, di più, tragico e ne ho tratto questa morale: quasi un richiamo al proverbio popolare “Aiutati che il ciel t’aiuta”, ma fors’anche una riflessione sulla necessità di una morale individuale, che utilizza conoscenza e responsabilità, per il raggiungimento di un fine, senza attese salvifiche, senza doversi sentir dire “Sa vot adès?”.

Lo si può sezionare, come ogni romanzo, in molti modi: con un’analisi linguistica, sulla struttura, sul racconto in sé; sui personaggi e i loro rapporti, sui luoghi. Cosa che ho pur fatto, ma essendo un romanzo un unicum e temendo di perdere pezzi per strada in una discussione spezzettata sui singoli aspetti, preferisco presentare le parti dentro un tutto.

Sbarazziamoci subito di una possibile querelle: la punteggiatura. I testi senza la punteggiatura corretta sono sempre un rischio, ma pare che Missiroli se lo possa permettere: il testo scorre chiaro e veloce, quale una ripresa filmica, un fiume continuo che include dialogo, riflessione, battute che scappano. A me non ha dato fastidio.

DESCRIZIONI: vi indugia quasi con voluttà, ma arricchisce senza appesantire.
Sui luoghi: il palazzo con la casa del portinaio e il cortile e la terrazza; il bar della strada; l’ospedale; il negozio di Anita; gli interni delle case; le strade di Milano; Rimini.
Cito solo alcune descrizioni:
Scale: odor di vaniglia (al passaggio di Viola);
Bar: con alito di crema; La notte si mangiava Milano;
Milano: cielo d’acciaio;
Casa di Poppi: bomboniera ammuffita;
Casa del benzinaio: il profumo d’arrosto ungeva l’aria.

Molto carine alcune riferite ai personaggi:
Paola: sapeva di lacca; la permanente incorniciava il viso di rughe; era un tailleur lilla;
Pietro: dalle foglie la faccia era uno spicchio di barba rada; i piedi erano sassi legati alle caviglie;
Poppi: testa ossuta; il polpaccio era un palloncino avvizzito;
Poppi e Pietro sul terrazzo: di loro rimasero due ritagli di buio;
Benzinaio impalato fuori dall’ospedale: metà notte e metà spaventapasseri, più appassito di un frutto caduto;
Andrea: era una testa su un cuscino rialzato; il braccio era un bastone dimenticato;
Strega in visita al prete: fece due passi che erano uno;
Biancaneve Sofia: una bocca senza labbra;
Lorenzo al lago: il viso era solo occhi; era un mucchietto d’ossa col fiato a singhiozzo;
Luca: un’ombra che parlava al telefono; ha un braccio di legno e Pietro glielo scalda; gli occhi sono due buchi senza fondo;
Fernando: era un mazzo di fiori;
Sara: un occhio carbone si infilò dentro (al gabbiotto);
Vecchio professore: uno scheletro con la barba appena fatta.

Un’altra cosa appare subito: l’uso dei flash-back: la storia si dipana in un continuo intreccio tra un passato che disvela il presente ed un presente che si giustifica col passato. Appena appare può sembrare un salto nel vuoto, l’inizio di un’altra storia; ma se sono due storie non possono che appartenere allo stesso personaggio: se ne intuisce subito l’incipit, ma la curiosità non scema, anzi, anche perché Missiroli ha condito il racconto con una certa dose di suspense che ingolosisce.

  • Alcune domande o questioni in sospeso per lettrici e lettori curiosi:
    Quando Pietro si rende conto di essere il padre di Luca? Appena ricevuta la lettera con la foto o quando Anita glielo conferma e gli chiede di dirglielo? E quando nel 18° cap., rivolto al benzinaio, si dichiara padre del dottore, lo dice perché ne è conscio o è solo una voce dal sen fuggita?
  • È possibile affermare che lo sapesse dall’inizio, tanto da consentirsi di entrare furtivo in casa dei Martini a rovistare, a cercare di scoprire non si sa cosa? Forse, se trema accarezzando la foto del figlio.
  • E perché soprattutto non si dichiara al figlio? Luca fino all’ultimo afferma che suo padre è morto cinque anni prima. È una posa, il rifiuto dell’evidenza, paura? o semplicemente accetta quello che gli disse la madre?
  • Un altro aspetto curioso è il feticismo di Pietro. Conserva tutto: il capello della strega, il suo biglietto dove scrive di aver ucciso suo figlio, la forcina, la lettera di riso col francobollo di Salgari; e poi il campanello della bici, il braccialetto con incisa la data dell’ecografia di Sara, le scritte del dottore ricalcate; e poi ancora l’elefante.
    Ce lo spiega l’Autore quando fa dire a Poppi e Viola che “alla fine rimangono solo cose”, questa è la memoria che resta: le cose. Ed è forse perché aveva già maturato l’epilogo che le sotterra tutte accanto alla sua Celeste? Per cancellare ogni memoria, perché – con Celeste – “mamma dice che Dio è nelle cose”?
  • Poppi è l’altro personaggio centrale del romanzo. Lui sa tutto – all’inizio quasi, perché ha fatto uno più uno – e decide di favorire il corso degli eventi, li provoca, li organizza, agisce da vero maître à faire; piange le pene degli altri, gode delle loro gioie, lui, invertito e vedovo disperato del suo Daniele; non è solo l’amministratore curioso del palazzo, un kibutzer pure lui, è il capofamiglia attorno al quale tutto giostra.
    È un solitario triste (Prévert è riportato a fagiolo), ma è anche un signore d’altri tempi che, solo dopo aver portato a buon fine i suoi scopi, le terapie a favore degli altri, garantita vita tranquilla al suo amato Teo, decide di farla finita, perché non si vive di memoria.
  • E che dire del rapporto di Pietro con il suo Dio? Orfano, se lo ritrova come unico padre conosciuto – tanto che le sue mani, che hanno solo pregato, sono incapaci di carezzare – ma non si sa quanto condiviso; si spreta, giovane, dopo aver conosciuto la carnalità; ma conserva la veste e qualsiasi colore diverso dal nero lo mette in imbarazzo; affronta il tema con ilarità alla domanda di Poppi “Ho divorziato da Dio perché non aveva un carattere facile” (battuta che ricalca quella di Woody Allen: “Dio è morto e neanch’io sto tanto bene”); accetta il rosario nel viaggio a Rimini; acconsente a rifarsi prete d’occasione per alleviare il dolore altrui. Non vive alcun conflitto quando capisce l’attività legalmente illecita del figlio e vi assiste né quando decide il modo assurdo, folle, finale di proteggere Luca.
  • Celeste è morta e la conosciamo solo attraverso il racconto. Strega, per la voce popolare, abortisce il frutto dell’amore proibito. Trascorre il suo tempo tra il ricordo dell’amore “di una” vita e gli obblighi dell’amore “per” la vita, ma non vuole morire col segreto e, inconsapevole, dà inizio a questo bel libro.
    È poetico l’amplesso tra il prete e la strega, Missiroli procede cauto, poche righe alla volta, un avvicinamento naturale che diventa preghiera. Come è poetica l’escursione di Pietro con Luca sui luoghi dell’amore perduto.
  • Non posso tralasciare il tema centrale del racconto: l’amore. Che, tra l’altro, secondo me, è il filone che è stato scelto per questo ciclo di letture. Troviamo “gli amori”: di Pietro con Anita; di Paola che scarica le sue pulsioni avvinazzate su Pietro; di Fernando che finalmente conosce l’intimità della sua fantastica Alice; dei Martini origliati.
    E poi l’amore che è gentilezza ed esaudire il desiderio: Luca che porta Lorenzo al lago; Pietro che regala l’elefante a Lorenzo; Paola che compra le rose a Fernando; Fernando che chiede alla Madonna che mamma rida; la madre di Lorenzo che porta il figlio a morire a casa.
    Ma l’amore interrogante, estremo, straziante del romanzo è quello che porta il benzinaio a staccare il tubo al suo calciatore e a farsi dare la morte; è quello di Luca che, trafitto dagli occhi dei malati terminali, accetta di praticare l’eutanasia; è quello di Pietro che, per proteggere il figlio dopo la rottura del matrimonio, provoca l’incidente mortale.
    Tutti rivendicano la paternità e tutti sono padri di tutti i figli, il senso dell’elefante, appunto. Nel cap. 18° troviamo la giustificazione dell’Autore per le decisioni che fa assumere ai suoi personaggi: “L’impotenza per la sorte dei figli lega ogni padre”.

Gianni Ursotti

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