SULLA STRADA. LIBERTÀ…?

                                                            

8 MARZOGIORNATA INTERNAZIONALE DELLA DONNA     
              contro la violenza, la sopraffazione, l’abuso 

                     01-Smettetela-di-farci-la-festa-Anarkikka-620x229

SIMONA VINCI, Strada Provinciale Tre, Einaudi stile Libero, Torino 2007.

 Simona Vinci, milanese trapiantata a Bologna, classe 1970, è una delle voci più significative della giovane narrativa italiana.220px-Simona_Vinci  Nel 1997, al suo esordio letterario, con Dei bambini non si sa niente, divenuto presto un best seller non soltanto in Italia, ma in numerosi altri Paesi, è stata protagonista di un sorprendente caso editoriale. E a ragione, perché si tratta di  un romanzo di grande sensibilità, capace di affrontare in modo inusuale, profondo ma delicato, un argomento solo apparentemente semplice e per nulla alieno, come è l’immenso universo infantile, visto, nella fattispecie, nella sfera delle sue pulsioni erotiche. In realtà un mondo misconosciuto e troppo spesso risolto in modo superficiale, lezioso o stucchevole. Oppure, peggio, considerato tabù. Da lì, di libro in libro, di successo in successo, Simona Vinci è andata gradualmente consolidando la propria immagine, confermando la fama di scrittrice pronta ad ascoltare le diverse istanze individuali e soggettive dell’animo umano, ma nel contempo attenta alle trasformazioni spesso inquietanti della civiltà contemporanea, e qualificandosi così tra i nostri autori più interessanti.

Il libro
978880618787GRANel 2007 è uscito Strada Provinciale Tre, e anche questo, a mio parere, è un gran bel libro. Ma certo non è una lettura facile. Non lo è innanzitutto perché ancora una volta propone argomenti “pesanti”, che riguardano la condizione dell’uomo colto nella sua interiorità, sviluppata attraverso percorsi intimi complessi, talvolta estremi. E non condivisibili. E poi perché costruisce un quadro impietoso – ma vero, e perciò più duro da accettare – della società odierna disgregata, alienata e alienante, dove presenze umane variamente connotate per provenienza, cultura, esperienze di vita coesistono senza interegire in spazi sempre più deprivati di senso. Spazi dove la sostanza comunitaria si è disfatta, soffocata dall’evoluzione dei tempi, sfociando in una serie di non-luoghi dello straniamento e della solitudine. Infine, non è un libro facile per l’impostazione narrativa e lo stile della scrittura, che, specialmente nella prima parte,  procedono lenti, con ampie sequenze descrittive e riflessive, dove il dialogo risulta quasi assente e predomina invece l’introspezione, adottando di volta in volta il punto di vista dei diversi personaggi. Che sono in tutto tre, due uomini ed una donna, con l’irrilevante aggiunta di alcune comparse.
Insomma, questa è un’opera da assaporare pagina per pagina, da gustare con lentezza, per la vicenda in sé e soprattutto per la scrittura sapiente, ricca, elegantemente elaborata, raffinata nelle parti affidate alla voce narrante e realisticamente mimetica del parlato nelle sequenze dialogiche. Salvo poi leggerlo tutto d’un fiato, catturati dalla situazione raccontata e dall’atmosfera, da quel senso di attesa e sospensione che si mantiene fino alla fine e può essere considerata la cifra stilistica più caratteristica del libro.come-sconfiggere-la-paura-della-solitudine_0bb19b2712f7555ff886efdd2eb06bb2
I protagonisti sono certamente figure realistiche, individui veri, con le loro storie difficili e complesse, le esistenze sinistrate, i sentimenti feriti. Si tratta però anche di immagini simboliche, quasi allegorie delle diverse condizioni esistenziali diffuse nel nostro tempo, così complicato e così ostile.: il vecchio solo, l’immigrato clandestino, la donna depressa, schiacciata da una “casalinghitudine” opprimente. Con le loro paure, le ansie, le delusioni. E i segreti.Solitudine Perché ce ne sono tanti, di misteri, omissioni e reticenze, seguiti da tardive  confessioni e parziali rivelazioni. Le informazioni  su eventi passati nella vita ora dell’uno ora dell’altro fra i protagonisti compaiono gradualmente, distillate come preziose essenze, e addirittura nelle ultimissime pagine alcuni nuovi elementi vengono peraltro a distruggere completamente le (poche) certezze che il lettore si illudeva di possedere. Allora il mosaico pazientemente messo a punto un tassello dopo l’altro salta in aria, tutto è sconvolto, i criteri interpretativi non reggono più. La realtà è tutta diversa da quello che si credeva, ma non meno agghiacciante. E certo altrettanto dolorosa. Non si tratta comunque di un giallo, almeno nel senso tradizionale del termine, perché il significato vero, quello che interessa all’autrice – e con lei al lettore – non è svelare i fatti, ma conoscere le personalità dei protagonisti, anche nella loro componente più intima e profonda.

La vicenda
LoneRunnerIl romanzo si apre con l’immagine di una donna in fuga: apparentemente senza età, senza nessuna attrattiva femminile, senza nome, senza storia. Sta ai margini di una strada, la Provinciale Tre, che taglia la Bassa Padana devastandone  il paesaggio, distruggendo l’impianto rurale, stravolgendo lo stile di vita della gente. Dividendo piuttosto che unire, come invece dovrebbero fare le vie di comunicazione: da un lato la campagna, con poche villette sparse, casolari abbandonati, capannoni dismessi e fatiscenti, il silenzio e l’isolamento; dall’altro, oltre il fosso, il nastro d’asfalto che si snoda diritto, interminabile, implacabile con la cacofonia dei motori, le luci, il traffico, i miasmi tossici. E la sua diversa forma di isolamento.
Sono due diversi mondi in opposizione. Quello della tradizione, di un passato dove le comunità umane avevano una fisionomia, un senso e una ragione di essere, oggi condannato al degrado, all’abbandono, al silenzio. E quello del movimento, della velocità, del rumore, in un flusso vitale prepotente e  talora  aggressivo di cui la strada è il simbolo e l’icona. Forse immagine di speranza, per alcuni. Ma per altri,  quasi un animale infido e minaccioso pronto ad attacamion_incidente_strada.jpgCccare.
In questo scenario straniato e  inospitale una donna dunque continua a correre, mentre la sequenza infinita dei camion, mostri voraci e spaventosi,  la sfiora, la stordisce, rischia di travolgerla e risucchiarla nel suo ventre nero. Di lei non sappiamo niente, appena qualche scheggia di vita che, di tanto in tanto, affiora da questo suo disperato andare. Solo più avanti nel testo conosceremo il suo nome, Vera, sapremo che ha trentasette anni ed è partita da un paese non molto lontano di quella stessa terra emiliana piatta e assolata. Sopporta fame, sete, il caldo afoso dell’estate padana e il freddo delle notti all’addiaccio. E poi i pensieri tormentosi, l’angoscia, la paura di essere scoperta, inseguita, aggredita. E l’ossessiva affermazione della libertà appena conquistata, che non vuole, non può assolutamente permettersi di perdere.old-man-779116-m
Quasi tutta la prima metà del libro è intessuta di questi elementi: è quindi un racconto on the road, ma l’avventura è tutta interiore, l’azione è volutamente limitata, soprattutto perché la protagonista non dà peso alle circostanze esteriori, tutta presa dalla propria idea, dall’inseguimento esclusivo dei fantasmi della sua mente. Ma qualche incontro in effetti c’è: e se quello con un camionista che la violenta è presto rimosso per non doverne soffrire – sparendo rapidamente anche dalla narrazione – ben più significativi risultano quelli con altri due personaggi.
Il primo incontro è con un vecchio che vive in una povera casa a ridosso della Provinciale, perennemente disturbata dal ruggito del traffico che fa tremare i vetri e copre ogni cosa di polvere e oblio. Sopravissuto all’estinzione della sua famiglia e alla dissoluzione della comunità rurale in cui ha sempre vissuto, ora si è chiuso in un’ulteriore solitudine caparbia e disperata, rifiutando anche quei minimi contatti umani che occasionalmente potrebbero turbare la monotonia della sua vita. Eppure, quando Vera si presenta alla sua porta, l’accoglie e la ospita con una gentilezza che lui stesso non ricordava più di possedere, nonostante di lei non sappia niente e un poco continui a diffidare con l’innata cautela del contadino. Sarà infatti la donna ad andarsene, e senza salutare. Salvo poi tornare quando avrà veramente bisogno d’aiuto, trovandosi in una situazione ben più complicata della prima volta.

E allora non sarà sola: con lei ci sarà Dimà, Dimitri, un giovane immigrato di origine ucraina che Vera aveva incontrato all’inizio del suo viaggio, poi perso e infine ritrovato. Dimà è addirittura premuroso nei suoi confronti: per l’istintiva solidarietà del clandestino capace di riconoscere le ragioni di chi fugge e si nasconde, per la compassione immediata che suscita una donna sfinita, palesemente sofferente nell’anima più ancora che nel corpo. Ma anche per un’innata dolcezza di carattere, una generosità, che affiora sempre, pur tra qualche lieve manifestazione di rudezza…Le agghiaccianti vicende del suo passato e le durezze della vita attuale, nella quale è costretto ad arrangiarsi con espedienti spesso umilianti, non hanno infatti la forza di avvilire un’indole fondamentalmente buona, donandogli piuttosto un’ulteriore capacità di comprensione e tolleranza, persino un’inconsueta saggezza di vecchio, che si spiega solo con l’intensità del dolore attraversinterno-di-una-scuola-devastatao cui è stato costretto a transitare.
Ora dice di volersi costruire un’esistenza da ricco, non avere più padroni, non doversi più sottoporre a mortificanti compromessi. Per un po’ si atteggia a duro. Ma alla fine si scopre che è solo un ragazzo affamato di amore, divorato dalla nostalgia di una casa e di una famiglia, e persino di quella vita di campagna che notoriamente non ha mai arricchito nessuno, ma che per lui ha il sapore del passato, di una realtà più autentica e umanamente soddisfacente. Una realtà persa per sempre a seguito di una tragedia che, se per lui ha assunto risvolti particolarmente devastanti,  non ha però coinvolto soltanto la sua persona, assumendo invece le proporzioni immense del disastro collettivo che si è abbattuto su tutto un popolo, annientando e cancellando dalla carta geografica un’intera città. Chernobyl.

Il vecchio Franco, Dimà, Vera: tre diverse declinazioni della solitudine, tre anime ferite, tre personalità smarrite. Così, tra frasi interrotte, reticenti rivelazioni, gesti maldestri che vorrebbero esprimere affetto ma si fermano a mezz’aria, bloccati dal pudore dei sentimenti, i protagonisti si trovano, si studiano, si scoprono. Ma l’esito non sarà uguale per tutti. Mentre per i due uomini l’incontro acquista la forza del riconoscimento e dell’accettazione, sfociando in un sodalizio salvifico per entrambi, Vera invece non riuscirà a superare la propria insopprimibile inquietudine.58solitudine
Nella topaia del vecchio, Dimà infatti decide di fermarsi  e di farne la propria casa, trovando qui un padre, più derelitto, stanco e malandato di quello che ha lasciato, ma per questo tanto più pronto a rispondere alla sua proposta di amore, a ritrovare il lui il figlio che non c’è più. Dimà riuscirà così a ridare un orientamento alla propria vita, ad attribuire un senso alle proprie giornate. E non è casuale che questa palingenesi avvenga proprio nell’ambito di quell’ambiente contadino che sembrava ormai destinato a scomparire. Un’utopia, forse: ma è bello provare a crederci.
Vera, al contrario, non vuole, o non può fermarsi. Resta ancorata alla propria disperata ricerca di libertà. Forse ha intuito che i due uomini insieme ora sono forti; forse crede, o crede di sapere, che lì non ci sia posto per lei. E certamente teme di essere risucchiata – di nuovo! –  nel gorgo di una vita domestica che aborrisce e che non vuole più. Questa è l’unica certezza.
Il pufoto15nto di svolta – imprevisto e drammatico – è dato da un nuovo elemento narrativo interpretabile come allegoria. Dal falò in cui Dimà bruciava le stoppie accumulate vicino a casa si estende un incendio, in realtà provocato volontariamente dalla stessa Vera. Che in esso decide di bruciare il taccuino in cui scarabocchiava saltuariamente brevi appunti, recidendo definitivamente i labili fili che ancora la legavano al passato. E poi, quando il peggio è passato, mentre i due uomini – ormai padre e figlio – contano i danni e si preparano alla ricostruzione, di lei non si trova più traccia. Perché Vera ha ripreso la sua corsa. Il libro si chiude così, come era cominciato, sulla strada. Con una donna che corre, sola ed estranea a sé e al mondo.

Tentativi di interpretazione
Rifiuto, ribellione, fuga. Voglia di andare, lasciare tutto, fuggire senza voltarsi indietro. Sapere che nulla può più succedere perché non si ha più niente da perdere. E sentirsi liberi proprio per questo. Lei, Vera, la protagonista, la chiama infatti proprio così, libertà.
Ma – e soprattutto alla luce delle sconvolgenti rivelazioni che alla fine del libro rovesciano completamente le prospettive interpretative – è libertà, questa? Si può considerare libera questa sua condizione di abbandono, che, per realizzarsi, passa attraverso l’alienazione, la perdita di sé, l’immedesimazione nella vita di un altro individuo, al punto tale da confondere le due identità? Sovrapporre l’immagine di un volto estraneo a donna-doppiaquella sempre più sfocata del proprio, immaginare, la quotidianità le relazioni, gli affetti, che non appartengono a lei, e neanche a quest’altra persona che non è lei, di cui non sa niente, di cui si inventa – e vive – un’esistenza che in realtà non è mai esistita? Soprattutto, assumersene le pene e le delusioni fino a giungere ad un dolore irresistibile, al limite di rottura, al punto di non ritorno? Questo fa Vera. E poi, da cosa fugge realmente? Dalla vita sua, o da quella tutta illusoria dell’altra, l’alter ego virtuale frutto del suo delirio? Altro termine più adeguato, secondo me, non c’è. Un delirio che arriva al punto di costruire nell’immaginario malato eventi tragici e devastanti, in realtà mai accaduti, ma vissuti, visti, sofferti con la straordinaria lucidità e concretezza dei fatti veri, in una visione ossessivamente nitida.
No, Vera non è libera. E che esito possiamo mai prefigurare per questa fuga, se non quella dell’animale braccato? Sono certamente argomenti impegnativi, domande difficili. Ma ineludibili: questo libro infatti ha il merito di porci di fronte a interrogativi che ci turbano ma non ci sono estranei, ci obbliga a riflettere su una questione del massimo interesse, che almeno una volta nella vita ci ha toccato tutti. O forse ci ha solo sfiorato, senza che ce ne rendessimo pienamente conto: ma l’idea c’era, c’è, sempre in agguato. Mollare tutto…Magari non ne faremo mai niente, ma intanto…  Io non ho risposte: non le ho per me, tantomeno dispongo di considerazioni convincenti da offrire agli altri. Ma sono convinta che la questione sia rilevante, e naturalmente mi piacerebbe discuterne con qualcuno.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*