Galileo vittima di un complotto organizzato dai Servizi Segreti veneziani con la complicità del suo migliore amico Paolo Sarpi: screditato professionalmente, accusato di omicidio, tacciato di aderire a sette sataniche. E infine addirittura minacciato di morte. Ecco dunque spiegate le ragioni della “fuga” da Padova, secondo la versione fornita da Roberto Zucchi col suo Siderea Crimina: che svela non tanto i motivi del trasferimento in Toscana, senz’altro voluto e lungamente programmato, quanto l’abbandono repentino della città veneta dove Galileo aveva vissuto i diciotto migliori anni della sua vita.
Ed ecco giustificato anche l’impianto rigorosamente poliziesco del romanzo, dove ad indagare è il maresciallo Raimondo Candelaro, coadiuvato dalla guardia scelta Brusamolin. Decisamente semplice ed ingenuo quest’ultimo; più scaltro, sornione, talvolta irruento, più spesso invece riflessivo il primo. Ideologicamente conservatore ma non ottuso, e soprattutto dotato di buone capacità intuitive, benché un po’ ignorantello. E del resto, chi non lo sarebbe a fronte di personaggi del calibro di Galileo e dei suoi amici-nemici? Sopra i due sbirri, il Capitano della Gran Guardia Marino Pietrobon, tanto sgraziatamente sbrigativo con i suoi sottoposti quanto untuoso e servile nei confronti di Sua Eccellenza Tomaso Contarini del Zaffo, il gattopardesco podestà imposto da Venezia.
Preoccupato,questultimo, solo di non aver grane, non pestare i piedi ai potenti, non richiamare le pericolose attenzioni della Dominante, potente e temuta. Tenere gli occhi aperti, certamente, tanto più che c’è di mezzo quel maledetto matematico in odore di eresia, ma che non ci siano scandali, – per carità! – che non si tocchino gli interessi dello Studio, e neanche quelli del Santo, che fra studenti e pellegrini rappresentano un’autentica miniera d’oro. Se poi di mezzo ci sono anche i Servizi segreti, figurarsi… E quindi nessun omicidio, nessun reato, nessun arresto. Anzi, neppure una denuncia. Archiviare, chiudere, dimenticare…
Il buon Candelaro ad ogni nuovo crimine viene chiamato in causa, ed effettivamente ci prova ad indagare, muovendosi con una solerzia ed un acume che si fanno via via più sottili ed efficaci col procedere dell’azione, arrivando al punto di affidare l’autopsia dei cadaveri al grande medico e chirurgo Girolamo Fabrici d’Acquapendente, qui assunto in veste di medico legale anatomopatologo. Ma alla fine dovrà rassegnarsi al nulla di fatto: tutto insabbiato.
Tranne forse Brusamolin, si tratta di personaggi realmente esistiti e presenti a Padova negli anni in cui si sarebbe svolta la vicenda narrata, qui organizzati e disposti dall’autore in una rete di rapporti gerarchici e professionali probabilmente realistica e certo storicamente possibile.
E corrispondente anche alle dinamiche relazionali consuete nel romanzo poliziesco: in basso, sulla strada, la manovalanza, i poliziotti guidati dall’ispettore o dal commissario che, a contatto quotidiano con malavita e criminalità si dannano l’anima tra diffidenze e frustrazione. E alla fine risolvono. Ma più su, ai piani altri della gerarchia, sulle poltrone degli uffici, stanno i dirigenti, ben più ottusi e talvolta collusi; e più in alto ancora i politici, la cui voce giunge ovattata e persino minacciosa dal’atmosfera misteriosa delle stanze del potere. A questi, della verità e della giustizia interessa poco o nulla. Anzi, meglio evitare del tutto di muoversi per non lacerare le fitte maglie delle svariate relazioni professionali e personali. Perché queste relazioni, e i relativi interessi, sono altri, occulti, e non sempre limpidi.
Il rispetto dei canoni della letteratura di genere rende Siderea Crimina estremamente godibile in quanto “giallo”, salvaguardando tuttavia le caratteristiche della veridicità storica e le ragioni dell’intereresse non meramente ludico. Sul piano narrativo, è poi singolare come Roberto Zucchi risolva alla fine la questione autoriale e quella relativa al rapporto con la presunta fonte documentaria della vicenda. L’ultimo capitolo del libro (il 42mo), infatti, è ambientato nell’estate del 2010, quando il romanzo deve essere stato appena ultimato. A Padova soggiorna l’illustre professor Guglielmo Montereali, studioso insigne e grandissimo esperto di cose galileiane. Inaspettatamente, egli viene contattato da un certo ispettore Maccato, appassionato di storia e di scienza, che gli sottopone un manoscritto, pregandolo di esprimere il suo parere, soprattutto dal punto di vista dell’adeguatezza contenutistica. Si tratta, naturalmente, di Siderea Crimina.
Sappiamo con certezza che nella figura di Montereali è adombrata quella del professor William Shea, presente in città nel 2010 e che effettivamente ha visionato il libro, coadiuvato dalla propria assistente, Caterina Agostini. È lo stesso scrittore che ce lo rivela nella nota in fondo al volume, confermandolo anche nell’intervista originale pubblicata in questo blog. Ma l’ispettore Maccato non assomiglia affatto a Zucchi, anzi risulta essere l’alter ego di Candelaro: stesso aspetto fisico, stessi modi, persino lo stesso mestiere. E naturalmente è proprio lui a rivelare l’esistenza del documento –inedito e anonimo – da cui sarebbe sorto il desiderio di dare veste letteraria agli appunti di Vincenzo Viviani spiegando così il complotto di Paolo Sarpi e il mistero della presunta fuga di Galilei. Maccato, poi, ha una sorella che non solo appare intelligente e professionalmente agguerrita, ma è anche fisicamente splendida: bruna, avvenente, sensuale. Insomma, il ritratto di Marina Gamba, la donna di Galileo.
Ma c’è di più. Nel locale dove i tre si incontrano, tutti gli avventori presentano straordinarie somiglianze con i diversi personaggi del libro, fino ad essere praticamente identificabili con questi. E, se non bastasse, il colpo di scena finale: i fratelli Maccato (che sappiamo essere interamente frutto di fantasia) che la vera identità di Raimondo Candelaro sarebbe in quella di un Raimondo Maccato, insinuando una probabile relazione con Marina, morta nel 1612 (forse di parto?) lasciando così un figlioletto neonato, battezzato subito dopo nella chiesa di San Lorenzo. Che, guarda caso, è quella dove svolgeva la sua funzione di parroco nientemeno che Lorenzo Pignoria, l’erudito pitagorico amico di Galileo. Insomma, non solo alla fine del libro Roberto Zucchi finge di rinunciare alla propria identità di autore nascondendosi dietro la figura di Maccato, ma per di più stabilisce un’intricata rete di analogie e corrispondenze che legano indissolubilmente passato e presente attraverso la formula delle identificazioni personali.
Che significa tutto ciò? Azzardo un’ipotesi interpretativa, forte anche della “licenza” al lettore nella già citata intervista. Innanzitutto, non penso che egli creda realmente nella trasmigrazione delle anime sostenuta dai pitagorici, che pure hanno un ruolo tanto rilevante nel romanzo. Ritengo che si tratti piuttosto di un gioco di invenzione letteraria, un divertissement dello scrittore, che dopo tanto rigore storico e tanta precisione nella ricostruzione di personaggi, ambienti ed eventi, si regala il piacere dell’abbandono alla fantasia senza limiti, libera dalle pastoie della fedeltà documentaria.
Del resto, se il verdetto di Montereali-Shea sul libero è “plausibile ma non probabile”, Zucchi a sua volta cita addirittura la Teoria Quantistica dei Cammini del Nobel per la fisica Richard Freynman, secondo cui ciò che non è accaduto ma sarebbe potuto accadere, incide su quanto realmente accade. Un divertimento, dunque, ma non privo di senso. Zucchi, a mio parere, ha inteso soprattutto esprimere e rappresentare l’universalità di certe tendenze ed atteggiamenti umani, la permanenza anche nella società contemporanea, fatte ovviamente le debite distinzioni storiche, di determinati ruoli e comportamenti che scandiscono le prese di posizione individuali, le relazioni interpersonali, le trame del potere, i giochi degli interessi e delle convenienze. Ed anche, in sordina, le suggestioni dell’etica e della coerenza intellettuale.
Questo, seppure elaborato da un diverso punto di vista, è in fondo il medesimo concetto di “attualità” attribuibile secondo Zucchi allo stesso personaggio di Galileo, che, sul piano esclusivamente umano, presenta innumerevoli manchevolezze e contraddizioni, efficacemente rappresentate nel libero. A prescindere dalla grandezza dello scienziato e del ricercatore, e a prescindere anche, secondo me, dalla sconfitta finale culminata abiura, che, giunta da parte di un vecchio stanco, amareggiato e sofferente, può certamente essere capita e, per così dire, perdonata, senza attribuirle la forza di intaccare minimamente i meriti scientifici. Che risultano sempre e comunque indiscutibili.
Infatti, se allo studioso è dovuta solo ammirazione, altrettanto non si può dire dell’uomo, nei diversi ruoli che la vita gli ha imposto, come a tutti: compagno, padre, amico, professionista, datore di lavoro… Sotto quest’ottica, Galileo ci appare davvero una figura sgradevole, talvolta poco raccomandabile e a tratti persino losca. Perché non è solo gaudente, puttaniere, bevitore incallito e crapulone. È pure, egocentrico, arrivista e maneggione.
Arrogante ed impudente con i suoi pari, intrallazzatore e doppiogiochista con i potenti, come ben dimostra proprio la nota vicenda dei suoi ambigui rapporti con la Repubblica Serenissima e il Granducato di Toscana raccontata in Siderea Crimina. Comunque lo si voglia spiegare, il passaggio da Padova a Firenze, preparato quasi clandestinamente e all’insaputa della Serenissima, da cui Galileo dipende in quanto docente dello Studio padovano, avviene a seguito di ripetuti contatti con la Corte medicea, accompagnato da diverse manifestazioni di ossequio ed insieme di piaggeria, richieste di favori e trattative economiche segrete. Ai Medici vengono offerte tutti i migliori frutti maturati dalle ricerche e dagli studi degli anni padovani. C’è in tutto questo un evidente, e per certi versi comprensibile, intento di ingraziarsi e rendersi indissolubilmente amici i nuovi datori di lavoro, forse non solo per le consuete ragioni economiche. Probabilmente Galileo sente l’esigenza di avere dalla propria parte protettori fidati, nella consapevolezza che la divulgazione delle proprie scoperte potrebbe facilmente potuto provocare polemiche, sospetti, forse addirittura denunce e ritorsioni presso il Sant’Uffizio. Ma è ugualmente un comportamento torbido ed eticamente criticabile, un doppio gioco furbastro, anzi, quasi un vero e proprio tradimento ai danni di Venezia.
Su un altro versante, egli sfrutta senza ritegno amici, collaboratori, allievi e dipendenti, trascura ostentatamente l’insegnamento universitario, pur adeguatamente pagato, per dedicarsi a tutta una serie di attività alternative imprenditoriali, certamente più remunerative ma non sempre corrette, e a volte realizzate con modalità decisamente disoneste. Spaziando dalle lezioni private alla gestione di un pensionato per studenti, dalla vendita delle dispense al commercio degli strumenti di precisione costruiti nel suo laboratorio da Marcantonio Mazzoleni, che dei proventi di tutto questo non vede nemmeno le briciole.
È dunque tirchio, avido, assatanato ricercatore di denaro e di favori. Certo, si dirà che tutto ciò gli viene imposto dai gravosissimi impegni economici derivanti dalla sua orrenda famiglia d’origine, in cui squallide ragioni di interesse e vere e proprie tare psicologiche sembrano essere la nota dominante. Va certamente dato atto a Galileo di aver onorato questi impegni con costanza ed abnegazione, assumendosi anche molti dei doveri che sarebbero invece spettati al fratello Michelangelo. Ma come valutare, per contro, il comportamento tenuto nei confronti della famiglia che lui stesso si era formata? Che dire dell’incrollabile determinazione a tenere a distanza Marina Gamba, evidentemente troppo poco fine e socialmente non presentabile? Determinazione degenerata in indifferenza e poi in odioso disprezzo, fino al crudele abbandono del 1610, al momento del trasferimento in Toscana.
E c’è di peggio. Con i figli, specialmente le due femmine, nate rispettivamente nel 1600 e nel 1601 e mai legalmente riconosciute, Galilei assume il ruolo di un autentico padre-padrone. Prima le sottrae a Marina, poi, dopo il fallito tentativo di affidarle (a pagamento) a Giulia Ammannati, invano coinvolta nell’improbabile parte di nonnina affettuosa, le costringe ancora bambine ad entrare nel convento di San Matteo ad Arcetri e prendere i voti. Perché, naturalmente, alle suore non è necessario fornire la dote, o almeno non così elevata come per le ragazze da maritare. Se la vocazione non c’è, pazienza: che si rassegnino. E se la rassegnazione non arriva, o non basta, se la rigida vita monacale non è adatta ad una persona insoddisfatta, fisicamente delicata, di salute cagionevole e per questo, forse, di carattere ombroso, non importa. Che obbedisca e basta. Come è stata costretta a fare la figlia minore Livia, monacata col nome di suor Arcangela, in cui pare di poter individuare un atteggiamento implicitamente ribelle e un rancore sotterraneo, ma costante, nei confronti del padre.
Il quale, dal canto suo, deve aver sempre ignorato le esigenze di lei, consolandosi con la dolce personalità della figlia maggiore, Virginia, ovvero suor Maria Celeste, che, pur monacata a forza, per sua fortuna deve poi essersi adattata bene, riuscendo con intelligenza a ritagliarsi un ruolo soddisfacente tra le consorelle e a trascorrere serenamente i pochi anni che le restano da vivere (morirà infatti appena trentaquattrenne nel 1632). E soprattutto per tutta la sua breve esistenza riserva al padre tante affettuose attenzioni: gli manda manicaretti prelibati, gli trova casa ad Arcetri, ne cura l’orto, gli lava e gli sistema la biancheria, all’occorrenza si presta persino come segretaria e copista…E il padre la ricambia calorosamente.
Insomma: la buona Virginia, mite ed obbediente, merita di essere amata; la ribelle Livia può solo essere ignorata: anche se soffre, anche se è ammalata ed infelice. Negli ultimi anni, poi, la concentrazione esclusiva sul proprio io del vecchio Galileo raggiungerà livelli ancora superiori, venandosi di patetismo e autocommiserazione, di cui faranno le spese i giovani allievi ed aiutanti che si dedicano a lui con ammirevole abnegazione. Ma ormai certi atteggiamenti sono resi forse più comprensibili e giustificabili dall’età, delle delusioni, dalla sofferenza fisica. E soprattutto dalla cecità, beffa amarissima del destino, che l’ha colpito proprio in quello che aveva di più prezioso: la capacità di osservare e descrivere la natura, che è l’insegnamento più grande del suo impegno di scienziato.
Tutto questo non è fantasia letteraria: quelli qui riportati sono infatti tratti reali della personalità di Galilei, emersi da documenti e testimonianze attendibili. “Modernissimo” lo definisce appunto Roberto Zucchi, respingendo ogni giudizio più decisamente negativo. E si può essere d’accordo, naturalmente, perché egoismo, avidità, arrivismo e supponenza, insieme ad un concetto alquanto elastico dell’etica professionale, sembrano essere proprio le note dominanti dei nostri tempi. Ma non significa che siano elementi positivi. E non direi che, per questo, la figura di Galilei ne risulti umanamente più gradevole.