Il mito galileiano
Soprattutto a partire dall’Ottocento, in piena epoca romantica e risorgimentale, l’immagine di Galileo ha cominciato a perdere i connotati della figura storica oggettivamente documentata, per assumere quelli del mito. In quanto tale, essa è diventata così oggetto di diverse interpretazioni in cui di volta in volta si manifestano valori ed ideali propri del periodo che le produce, riattualizzando – in chiave non precisamente filologica – un punto nodale della storia della civiltà moderna. “Civiltà” e non semplicemente “scienza”, perché, se con le osservazioni galileiane inizia effettivamente a prendere forza la ricerca modernamente intesa, proprio l’apertura degli orizzonti di un “nuovo cielo” consente poi la piena attuazione della cosiddetta “rivoluzione copernicana”, che è costituita da un complesso di fattori di cultura e di mentalità significativo ben oltre l’ambito d’origine. Visto spesso come simbolo di un sogno ideale, esempio e campione dell’anticlericalismo o della lotta per la libertà di pensiero, eroe della battaglia tra innovazione e conservatorismo, talvolta invece, all’estremo opposto, antieroe vittima dell’oscurantismo, della debolezza umana o incoerenza intellettuale, Galileo ha ispirato vari artisti ed è divenuto protagonista di numerose opere, non sempre perfettamente riuscite, ma che, al di là del valore intrinseco, sono appunto valida testimonianza dell’interesse artistico e intellettuale suscitato dalla sua personalità e sviluppato in una dimensione interdisciplinare di ampio respiro.
Accanto ad una copiosa fioritura di pièce teatrali, esistono anche molti documenti cinematografici e persino alcuni lavori coreutici e opere liriche. Relativamente scarsa è invece la presenza dello scienziato nella narrativa, con una notevole discrepanza rispetto ai prodotti delle arti performative. La figura di Galilei è dunque dotata di forte impatto scenico, ma gode di limitato potenziale romanzesco? Forse questo aspetto della fortuna galileiana ha delle motivazioni non banali che meriterebbero di essere approfondite, ma non è qui la sede per insistere sulla questione.
Siderea Crimina
Ad arricchire il panorama un po’ sguarnito del romanzo di argomento galileiano è però ventuto recentemente (2012) un bel libro che, con un chiaro riferimento al Sidereus Nuncius, si intitola Siderea Crimina (Crimini Stellari). Ne è autore Roberto Zucchi, giornalista passato alla letteratura, al suo esordio con un giallo storico ambientato a Padova nel periodo della permanenza in città di Galileo Galilei. Originario di Modena ma da sempre residente a Padova, Zucchi predilige la città veneta, che considera un libro di storia a cielo aperto, e nutre un vivo interesse per tutto ciò che è padovano: fatti, uomini, opere e situazioni che nei secoli ne hanno fatto non solo uno scrigno ricco di pregevoli opere architettoniche ed artistiche, ma anche la vivacissima protagonista della cultura, della scienza e del pensiero rinomata in Italia e nel mondo. Grazie innanzitutto alla sua Università antica e prestigiosa sorta nel Medioevo dalla volontaria diaspora di studenti e professori dell’Alma Mater Studiorum bolognese. Lo Studio è infatti un’istituzione fortemente voluta, difesa e sostenuta tenacemente dalla Repubblica Serenissima, sotto il cui dominio Padova è rimasta a partire dal 1405, seguendone fedelmente le sorti fino alla fine, segnata nel 1797 dal trattato di Campoformio.
La presenza dell’Università si è subito rivelata per la città un elemento imprescindibile del suo sviluppo e della sua configurazione sociale, condizionandone la vita in un modo evidentissimo ancora ai giorni nostri. E ne ha naturalmente fatto la ricchezza, portando, insieme agli studenti e a tutte le diverse attività connesse, anche tanto denaro, in una svariata gamma di interessi, certamente mai trascurati personaggi privati e pubblici delle diverse epoche. Ma ovviamente, su un altro piano, l’aspetto più rilevante è sempre stato la presenza di uomini, idee, proposte, occasioni di confronto e dibattito che hanno consentito l’instaurazione di un clima culturale eccezionalmente fecondo, capace di superare i limiti dell’ambiente accademico e di permeare tutto il tessuto cittadino, invadendone le diverse istituzioni, i circoli intellettuali privati e pubblici, i centri laici e religiosi. Creando insomma un retroterra ricchissimo, dove l’eventuale presenza di menti geniali ha avuto modo di valorizzarsi e prendere risalto proprio dall’eccellenza della loro levatura in un contesto già di per sé straordinario. È questo quanto accade nel caso di Galileo, assunto dallo Studio patavino come docente di Matematica e rimasto in città dal 1592 al 1610.
Siderea Crimina descrive benissimo quest’atmosfera cittadina dotta e brulicante di presenze erudite. Rappresenta infatti realisticamente l’ambiente accademico, come quello intellettuale e quello ecclesiastico, mettendo in scena una miriade di personaggi, protagonisti o comparse, osservandone le relazioni e le varie dinamiche relazionali individuali e collettive. Sempre con grande precisione e accuratezza storica, ma senza mai venir meno al gusto della narrazione e al piacere di raccontare in modo brillante e vivace, arricchito da un frequente ricorso all’ironia e dal saporoso uso del dialetto, orchestrato, a seconda dei parlanti, nelle varianti pavana e veneziana.
I riferimenti topografici sono minuziosi e filologicamente corretti nella terminologia del’epoca e consentono di seguire puntualmente la vicenda, che si colloca tutta nel febbraio 1610, anno del trasferimento di Galileo a Firenze, pur con qualche excursus nel primo periodo della permanenza di Galileo in città e un paio di puntate in avanti, di cui diremo in seguito. Tutti i centri nevralgici della cultura e della fede in Padova sono ampiamente raccontati, mentre nei non numerosi capitoli ambientati nella capitale lagunare compaiono invece i luoghi deputati del piacere e del divertimento, cui una borghesia ancora ricca e gaudente, benché ormai nella fase discendente della sua potenza, affida la propria ansiosa ricerca di appagamento. Così, nel rappresentare il dualismo tra le due città, Zucchi ripercorre e tratteggia con efficace evidenza l’ambivalenza propria anche della personalità e della vicenda biografica di Galileo, protagonista del libro. Ne deriva una lettura intensa, colta, a tratti anche impegnativa, ma sempre godibile ed estremamente interessante.
Come si è detto, la componente gialla – più precisamente poliziesca – è dominante nel romanzo, e muove dal tentativo di spiegare narrativamente le ragioni dell’abbandono da parte di Galileo della cattedra padovana in favore dello Studio di Pisa, alle dipendenze del Granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici. È lo stesso autore a confessare (o fingere di farlo?) nell’ultimo capitolo che l’input alla scrittura è dato dal ritrovamento un documento di mano di Vincenzo Viviani, l’allievo che negli ultimi anni assiste un Galileo ormai vecchio e ammalato nella villa di Arcetri, dove lo scienziato è segregato agli arresti domiciliari dopo la condanna e l’abiura. Ma già nel Prologo il medesimo documento aveva fatto la sua comparsa, per così dire, in diretta. Si tratta della minuta per la risposta ad una lettera dell’aristotelico Fortunio Liceti (il povero Simplicio del galileiano Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo), oggi conservata nell’Archivio di Stato della Serenissima, dove lo scienziato definisce quelli padovani “i migliori diciotto anni della sua vita”. Zucchi immagina che, di fronte allo sconcerto di Viviani, incapace allora di spiegarsi la partenza, Galileo decida di chiarire quali erano state, all’epoca, le proprie ragioni. Il giovane ascolta e prende appunti. E il retro della minuta va rapidamente coprendosi di una scrittura fitta fitta…
Li diciotto anni migliori di tutta la mia età
Quando decide di andarsene, Galilei è al culmine di un periodo veramente fondamentale per le sue ricerche. Ha portato a termine studi e scoperte sull’isocronismo del pendolo, le fasi lunari, le maree, i satelliti di Giove. E poi le invenzioni: il compasso militare, il cannocchiale, il termoscopio. A Padova come Venezia, molti certamente lo invidiano, qualcuno forse lo detesta, ma tutti lo ammirano. La Serenissima lo copre di tributi onorifici e – soprattutto! – di riconoscimenti economici. Per di più, dopo il successo del cannocchiale, vorrebbe tenerlo in territorio veneto vita natural durante, offrendogli libertà di ricerca, favori e protezione. Una protezione forse non più così sicura come un tempo, ma pur sempre preziosa. Inoltre, personaggi influenti e colti, ricchi di interessi scientifici quali Paolo Sarpi, Giovan Francesco Sagredo, Lorenzo Pignoria, Paolo Gualdo sono amici fidati e validi interlocutori sul piano intellettuale. Persino i rivali come Cesare Cremonini sembrano quasi amichevoli, e comunque impossibilitati a nuocere. E poi tanti, tantissimi altri, conoscenti, estimatori, collaboratori, magari umili ma insostituibili, come i mastri vetrai muranesi che mettono a punto le lenti per il cannocchiale, o Marcantonio Mazzoleni, l’artigiano meccanico che, sottopagato e sfruttato in modo quasi vessatorio continua da anni a fabbricare tutti gli strumenti di precisione inventati da Galileo e da questi venduti a prezzi esorbitanti, consentendogli di guadagnare una fortuna (di cui a Mazzoleni non gode nulla). Tutti contribuiscono alla gloria dell’illustre scienziato.
Per non parlare del fatto che a Padova si trovano Marina Gamba e i tre figli che Galileo ha avuto da lei. Una famiglia in realtà mai legalizzata e mai accolta nella casa di Borgo Vignale, dove invece stanno a pensione numerosi studenti, e trovano posto anche lo studio e il laboratorio in cui ferve l’attività del buon Mazzoleni. Di Marina, Galileo, dopo gli anni della passione, deve evidentemente essersi stancato, ma si tratta pur sempre di una famiglia reale e presente, e lui non può esimersi dall’occuparsene, seppure distrattamente, e forse controvoglia. Eppure, Galileo lascia.
Dopo pazienti trattative con il Granduca di Toscana, Galileo il 10 luglio firma il contratto per lo Studio di Pisa, e in settembre è già sistemato a Firenze. Tutto ciò – storicamente vero e documentato – viene normalmente interpretato come desiderio di migliorare le condizioni esistenziali, se non economiche, perché la cattedra di Pisa non implica l’obbligo di residenza in città, né quello di insegnamento, che Galilei aborrisce e che invece è obbligatorio a Padova. Forse il servizio presso un principe gli appare, al momento, più prestigioso e gratificante, o forse non è estranea alla decisione la volontà di avvicinarsi proprio a quei parenti toscani scomodi, ingombranti e parassitari, che per la verità sarebbe meglio tenere a distanza di sicurezza. Da loro infatti continuano ad arrivare pressanti richieste di denaro, tuttavia a questi obblighi lo scienziato non si sottrarrà mai. Ma perché il trasferimento in Toscana avviene repentinamente, interrompendo quasi ogni contatto con tanti amici e sodali con cui per diciotto lunghi anni c’era stata una corrispondenza calorosa e intellettualmente proficua? Sono forse subentrate motivazioni diverse, magari un evento devastante da dover rimanere segreto, sepolto nelle note criptiche dei personaggi coinvolti, nelle illazioni di chi si interroga, nella mente sconvolta della vittima illustre?
A questo punto, alla storia subentra l’invenzione letteraria. Zucchi infatti immagina che dagli appunti di Vincenzo Viviani, (purtroppo anonimi ed inediti, quindi ufficialmente inutilizzabili) si possano evincere informazioni clamorose. Galileo cioè sarebbe stato vittima di un complotto, finalizzato non semplicemente a distruggerlo professionalmente, ma anche renderne sospetta la figura presso l’Inquisizione e a minacciarne la stessa vita. Complotto ordito nientemeno che da fra’ Paolo Sarpi, con la complicità, anzi, con la supervisione dei Servizi Segreti veneziani, di cui avrebbe fatto parte lo stesso Sagredo. Lo scopo? Ritardare il più possibile o addirittura bloccare la pubblicazione del Sidereus Nuncius, troppo pericoloso, in un clima di rinnovato fervore inquisitorio, per una Venezia non più così potente come un tempo, circondata da alleati del pontefice e avviata ad un irreversibile declino politico e militare.
La vicenda
Il libro è la ricostruzione dei fatti e delle circostanze immediatamente precdenti il trasferimento in Toscana dello scienziato, raccontando appunto l’azione architettata da Sarpi per conto della Serenissima, al fine di screditare Galilei tramite il suo presunto coinvolgimento in due omicidi. Ecco dunque una serie di prove false messe a punto sfruttando l’identità delle vittime, che con lo studioso avevano avuto entrambe rapporti non precisamente cristallini. Il primo morto, precipitato dal campanile del Santo, è infatti Wolfgang von Adler, uno studente tedesco allievo e pensionante presso lo scienziato, e soprattutto amante di quel Simon Marius, prefetto della Nazione Tedesca presso lo Studio, notoriamente inviso allo scienziato per motivi accademici. Il secondo è addirittura il suo ex scrivano e segretario Silvestro Pagnoni, trovato impiccato ad un albero dell’Orto Botanico, dove è passato a lavorare dopo aver lasciato il servizio presso Galileo. Lui infatti è quello che alcuni anni prima, per istigazione della perfida Gulia Ammannati, madre dello scienziato, l’aveva denunziato all’Inquisizione padovana per pratiche contrarie alla religione e alla morale. Nell’un caso come nell’altro, diversi indizi associano gli eventi alle ricerche dello studioso pisano: l’accelerazione dei gravi per Adler, l’isocronismo del pendolo per Pagnoni.
Nel frattempo Galilei è al centro di una sottile e diffusa campagna di diffamazione, per cui il suo nome viene posto in relazione non soltanto ai delitti, ma anche a sequenza di turpi abitudini ed episodi sacrileghi e scandalosi. Quel che è certamente più pericoloso, però, nella sapiente orchestrazione del complotto antigalileiano, è la volontà di dimostrare che le opere dello scienziato siano frutto di una mente diabolica, se non dello stesso Belzebù in persona. Compaiono infatti specifici riferimenti al pentacolo rovesciato, simbolo satanico per eccellenza e alla tetraktys pitagorica. Come dire pratiche magiche, occulte ed esoteriche, sospette e proibitissime, e soprattutto capaci di attirare immediatamente le attenzioni occhiute dell’Inquisizione. Con conseguenze che rischiano di avere effetti devastanti, e non soltanto sul piano dell’immagine. Galilei non sa quello che, almeno in parte è già noto al lettore, ma capisce che, evidentemente c’è qualcuno deciso ad ottenere la sua sconfitta, anzi la sua rovina, la distruzione completa. A qualsiasi costo. E deve trattarsi di qualcuno che lo conosce bene, in possesso di sufficienti nozioni scientifiche per riprodurre la formula dell’isocronismo del pendolo, e abbastanza introdotto nei circoli culturali più segreti della città, dove il pitagorismo è di casa. In effetti molti sono i pitagorici tra le persone vicine a Galileo, tra le sue frequentazioni abituali nell’ambiente colto ed eterogeneo della città universitaria, e molti sono addirittura uomini di chiesa, come don Lorenzo Pignoria, o Paolo Gualdo, arciprete del duomo, o ancora fra Girolamo Spinelli, poeta in lingua pavana. Per non parlare dell’erudito bibliofilo Pinelli (già morto nel 1601), colui che aveva accolto e protetto Galilei nei primi tempi del suo soggiorno padovano e iniziatore dello scienziato alle dottrine pitagoriche. Il cui fascino, irresistibile per uno scienziato, deriva dall’affermazione della matematica come unico ed imprescindibile linguaggio per comprendere e descrivere la natura. Persino Cremonini, aristotelico convinto e deciso oppositore della metempsicosi, non può non ammirare ed approvare questo principio, che sostiene il valore assoluto della ragione e della scienza in quanto tale. E poi Pitagora è stato il primo a credere e diffondere l’idea dell’eliocentrismo, proprio quell’idea rivoluzionaria ripresa tanti secoli dopo da Copernico. Come può Galileo sentirsi estraneo a tutto ciò? Ma da questo a seguire cerimoniali satanici o pratiche magiche ce ne corre. Allora chi è l’ignoto persecutore? E cosa vuole ottenere?
La risposta a quest’ultimo quesito – anche per il lettore, che già ne conosce l’identità – arriva con il terzo evento criminoso, sintetizzato nel presunto documento fonte del romanzo (che dunque da ciò trae il terzo blocco narrativo, l’ultima macrosequenza).
Questa volta ci va di mezzo Marcantonio Mazzoleni, il meccanico artefice di tutti gli strumenti inventati da Galileo, che viene rapito nel suo laboratorio presso la casa di Borgo Vignali. Il rapimento è segnalato e siglato ancora una volta da un’allegoria sibillina di sapore pitagorico, cui si accompagna una disperata richiesta di aiuto del povero artigiano. Che indica come prezzo del riscatto richiesto dai rapitori il progetto del celatone.
Eccolo, il particolare che fa la differenza! Il celatone è l’ultima invenzione galileiana, e non è cosa da poco. Il suo uso permette infatti di osservare dal ponte di una nave i satelliti di Giove, e da questi determinare la longitudine, quindi indicare la posizione delle imbarcazioni. Il nome deriva dalla forma, simile a una grande celata, perché infatti il dispositivo consiste di un elmetto metallico, al quale è fissato un piccolo cannocchiale, regolabile in maniera da poterne allineare l’asse con l’occhio dell’osservatore. In questo modo, essendo la testa in grado di adeguare continuamente la mira ai repentini movimenti della nave, Giove viene costantemente inquadrato nel campo del cannocchiale. È evidente che questo può essere un efficacissimo strumento per la marineria e l’arte militare. Utilissimo per chi ne disponesse prima di tutti gli altri…e pericolosissimo per chi invece ne fosse privo. Insomma, una novità strepitosa. Galileo si propone di arrivare alla costruzione di un primo esemplare da offrire innanzitutto a Cosimo de’ Medici come ottima base per future contrattazioni di favori, intenzionato ad attivare poi una produzione su vasta scala, da sfruttare economicamente grazie ai diritti di fabbricazione. Ma Venezia è decisa ad impedirne la costruzione in terra medicea, appunto appropriandosi per mano dei suoi agenti dell’unico progetto esistente.
Si scoprirà in seguito che Mazzoleni era stato contattato e reso in qualche modo consenziente col complotto “per il bene di Galilei e della Serenissima”, ma gli accordi erano ben diversi dalla piega assunta poi dai fatti: consapevole della necessità di bloccare la pubblicazione del Sidereus Nuncius, nulla sapeva dell’ipotesi di appropriarsi dei disegni del celatone, e tantomeno immaginava le peripezie che avrebbe dovuto affrontare. Viene infatti rapito da un bravo mellifluo e minaccioso e portato alla chiusa delle Porte Contarine e costretto ad una pericolosa sistemazione all’interno della conca del Piovego. Per liberarlo, Galileo dovrà essere disposto a tutto, anche a cedere il prezioso progetto…
Intanto, con l’aiuto dell’amico Pignoria, lo scienziato cerca di decifrare le indicazioni criptiche fornite dai rapitori per scoprire il luogo del sequestro. Tutto conduce al Palazzo della Ragione, la sede dove si amministra la giustizia, e in particolare al Salone, la splendida aula affrescata da Stefano da Ferrara e Nicola Miretto con trecentotrentatre dipinti ispirati alla simbologia astrobiologica di Pietro d’Abano. Insigne scienziato, medico, astrologo e filosofo del XIV secolo, docente a Padova e a Parigi, Pietro è considerato il padre della scuola aristotelica padovana, che pone come fondamento della conoscenza soltanto i dati naturali, certi e controllabili. Studioso eclettico e versatile, scienziato rigoroso e spesso geniale, egli – non a caso, forse – è finito in odore di eresia. Pignoria spiega al compagno che, accusato di praticare arti magiche, egli è stato arrestato, torturato, mandato a giudizio e praticamente ucciso nel corso del processo. È stato quindi condannato post mortem, fino alla riesumazione e al rogo postumo per la completa esecuzione della sentenza. Un richiamo certo poco rassicurante per Galileo, già sufficientemente frustrato e preoccupato per ragioni squisitamente personali. Finalmente però viene identificato il punto degli affreschi corrispondente al messaggio: si trova sotto lo Scorpione, e rinvia senz’altro alla confluenza di due corsi d’acqua, ad un ponte, a delle chiuse…Questo è chiaro, sì: ma dove in città? Galileo e Pignoria, in disaccordo sul luogo preciso, finiranno per dividersi, e mentre il religioso si dirige alla Torlonga, lo scienziato, correttamente, prenderà affannosamente la strada per le Porte Contarine, dove il misero Mazzoleni è bloccato nella conca di navigazione. Mentre l’acqua, non trattenuta dalla valvola della chiusa manomessa dal losco rapitore, continua a salire inesorabile…
In preda all’ansia più devastante, Galileo attraversa Porta Molino e poi l’isola dei Pellattieri e da lì, superando pericolosi ostacoli, incontri inquietanti e minacciose presenze, raggiunge le chiuse riuscendo finalmente a individuare Mazzoleni. La liberazione del prigioniero avviene infine grazie alle conoscenze scientifiche di Galileo, al suo spirito d’osservazione e di iniziativa, e non ultimo alla forza fisica. Insomma, qui egli assume quasi il ruolo di un eroe cinematografico nella sua spasmodica lotta contro il tempo. La scena della corsa disperata e del successivo salvataggio, in una Padova notturna infida e gelata, è infatti ad alta intensità drammatica e caratterizzata appunto da un forte impatto “scenico”.
Ma Galileo non è Indiana Jones, e a distinguerlo è la sottile inquietudine che lo assilla, il senso di solitudine ed isolamento, i dubbi sempre più persistenti sulla buona fede di Pignoria e degli altri pitagorici. E soprattutto un nuovo pensiero tormentoso. Perché le istruzioni dei rapitori sembrano alludere, fra l’altro, ai suoi studi sulle maree: studi non ancora pubblicati, ignoti a tutti, tranne una persona, l’amico più caro. Che lui ha sempre ritenuto fidatissimo, e che invece forse…
Così, a poco a poco, nella mente dello scienziato comincia a farsi strada un tarlo, un sospetto sempre più insistente e sgradevole. Ben più che un sospetto è invece per il lettore, che non ha incertezze sull’identità di chi ha organizzato rapimento e ricatto, nonché l’omicidio di Pagnoni e tutte le false prove. Rimane però ancora qualche ombra riguardo le reali motivazioni del tutto. Pressioni dell’ambiente religioso? Preoccupazioni politiche? Volontà di possedere uno strumento dalle straordinarie implicazioni militari? Irritazione per il subodorato tradimento dello scienziato?
Paura e delusione
I chiarimenti arriveranno tutti alla fine, quando, in un tesissimo confronto con Paolo Sarpi, Galileo avrà conferma dei suoi sospetti. Il frate si confessa responsabile di quanto è accaduto, tranne l’avvelenamento di Pagnoni, vera causa della morte, che noi sappiamo essere dovuto alla longa manus di Sagredo. Per anni lo studioso è stato strettamente sorvegliato da agenti dei Servizi, due sbirri gemelli risoluti e sbrigativi, che obbediscono e rispondono esclusivamente al Consiglio dei Dieci e che alternativamente sono comparsi nella narrazione come presenze misteriose ed inquietanti, senza che Galileo abbia potuto realmente comprendere, pur avendo confusamente percepito qualcosa di inspiegabile in alcuni incontri. Del resto, dopo la famosa questione giurisdizionale tra papa Paolo V e Venezia culminata nel 1606 con l’interdetto della città e la scomunica dei suoi maggiori esponenti, il frate servita era diventato davvero sgradito alle autorità religiose, irritate per la sua tenace difesa della laicità e della autonomia della Serenissima dalle mire vaticane. Così, a partire dagli attentati che egli ebbe a subire prima per ordine della Santa Sede, i Servizi hanno tenuto sotto osservazione e manovrato pure lui. Che era un tempo potentissimo, ma ormai è tanto in vista da risultare ingombrante per la stessa Repubblica. Ora, in una Venezia dallo splendore già un po’ appannato, è apparsa troppo pericolosa persino la semplice pubblicazione del Sidereus Nuncius. La grande regina ormai stanca, politicamente isolata e spesso sconfitta, non più in grado di opporre al Vaticano e all’Inquisizione la resistenza ferrea ed orgogliosa degli anni precedenti, non può rischiare di dare alle stampe un’opera destinata a demolire la dottrina tolemaica e geocentrica su cui si era sempre basato il magistero (e il potere) della Chiesa. Non s’ha da fare. Ma a far davvero precipitare la situazione è stata la consapevolezza che, nell’imminente trasferimento a Firenze (evidentemente non bene occultato come si illudeva il pisano) Galilei stava lavorando al celatone, uno strumento potenzialmente deleterio per la sicurezza militare della Serenissima. E questo la Repubblica non può proprio tollerarlo. Tali sono le accorate rivelazioni di un Paolo Sarpi, in verità più avvilito che orgoglioso della piega assunta dalla situazione. E queste sono le ben più sinistre precisazioni fornite dall’agente che assiste al drammatico colloquio: se necessario, la Serenissima prenderà i propri provvedimenti anche in forma estrema. Anche a costo di eliminare fisicamente lo scomodo inventore.
Galileo è in preda alla più nera delle delusioni. Tutto il suo mondo professionale, relazionale, persino affettivo, sembra essergli crollato addosso. E sulle macerie si posa ora inquietante l’ala della minaccia. C’è forse qualcosa di strano se lui allora deciderà di andarsene in fretta, senza salutare nessuno, solo ed ormai estraneo a tutti?