MARCO VICHI, Il nuovo venuto, Guanda, Milano 2004.
Un morto che nessuno rimpiange
Dicembre 1965. In una Firenze invernale, spesso mortificata dal repentino abbattersi di gelide folate di vento o dai rovesci di una pioggia torrenziale, nulla sembra poter offuscare la festosa atmosfera natalizia, fatta di luci e di assalto agli acquisti ormai già tutto consumistico.
Ma proprio qui si compie un delitto particolarmente cruento: in un appartamento di Piazza del Carmine, non lontano da San Frediano dove abita il commissario Bordelli, un uomo viene ucciso con un tremendo colpo di forbici alla nuca. La vittima è quella che tutti in quartiere chiamano “il nuovo venuto” ricordandolo con fastidio, se non addirittura con odio. Perché si tratta di un immigrato dal sud, che di nome fa Totuccio Badalamenti e di mestiere fa lo strozzino. Tutti lo sanno, nonostante la copertura di un’attività legale in campo immobiliare, e molti hanno avuto la sventura di cadere tra le sue grinfie di cravattaro, passando attraverso minacce, umiliazioni, ricatti, nella violazione spietata dei sentimenti più intimi e delle situazioni più dolorose. E alcuni hanno rischiato la completa rovina.
Anche chi è miracolosamente riuscito a sottrarsi a tutto questo, rammenta però con insofferenza l’arroganza, la violenza, l’ostentazione odiosa di una ricchezza mal guadagnata, sintetizzata da una vistosa Porsche rossa parcheggiata ai margini di una strada popolosa di gente umile e persino dimessa. Insomma, nessuno si rammarica della sua morte del “nuovo venuto”, ed anzi c’è chi apertamente ne gioisce con un respiro di sollievo, considerandone l’uccisione un doveroso gesto di giustizia che ha bonificato la città dalla presenza di un individuo infame.
È più o meno quello che pensa anche il commissario incaricato delle indagini: atteggiamento poco regolamentare,forse; certo non perfettamente allineato al dettato della legge, ma Franco Bordelli non è tipo da fermarsi all’enunciazione letterale della normativa, preferendo di gran lunga ragionare in termini di “vera” giustizia, nella concretezza dei casi che gli si presentano.
Il fatto è che già alcuni mesi prima che avvenisse l’omicidio egli aveva cercato di incastrare Badalamenti, sulla cui reale attività non aveva alcun dubbio, ma i suoi tentativi di indagine erano stati frustrati dalle remore del questore Inzipone e soprattutto del giudice Ginzillo, che aveva negato il necessario mandato di perquisizione a casa dell’usuraio. Motivo? Il timore di suscitare un vespaio, date le conoscenze ed i contatti altolocati di cui quello disponeva. Bordelli allora aveva addirittura cercato di introdursi illegalmente nell’abitazione, senza però riuscirvi, e quindi si era ritrovato nell’impossibilità di agire, mentre Badalamenti continuava impunito le proprie losche attività. E ora l’omicidio. Di cui, a parte l’esecutore materiale, la vera responsabilità, secondo Bordelli, va tutta attribuita a quell’incapace di Ginzillo e alla sua ipocrisia. Comunque, ora almeno può indagare ufficialmente, nel pieno rispetto (forse) della legge.
Il commissario Bordelli in azione
In casa dell’ucciso, Bordelli riesce a scovare molto materiale interessante: cambiali, contratti, atti di cessione di proprietà, e poi oggetti personali, fotografie, gioielli, lettere, tutte prove non solo del turpe mestiere del morto, ma anche di tutte le intimidazioni e angherie con cui questi tormentava le sue vittime, colpendole in quanto avevano di più caro. La prima decisione di Bordelli sarà allora quella di rendere ai “clienti” le cambiali con cui Badalamenti li teneva in pugno: il suo prezioso regalo di Natale che lui, scorazzando per la città col suo scassatissimo Maggiolino, provvede a consegnare di persona, verificando, allo stesso tempo, l’eventuale possibilità di colpevolezza. Ma invece no: si tratta sempre di poveracci, caduti in preda di Badalamenti per bisogno, o a causa di qualche debolezza di cui hanno avuto tempo e modo di pentirsi amaramente. Non certo di assassini.
Ma, tra le tante storie che si possono intuire dall’esame di questi documenti, due più d’ogni altra colpiscono la mente (e il cuore) di Bordelli. Innanzitutto quella di una bellissima ragazza ritratta in pose compromettenti. E poi la vicenda ancor più commovente racchiuso in un bigliettino in cui una povera donna implora lo strozzino di non svelare al figlio alcuni particolari scabrosi del suo passato, inequivocabilmente testimoniati da vecchie foto ora in possesso di Badalamenti. Due casi umani, due situazioni penose in cui incombe l’ombra di un odioso ricatto. Per individuare il movente del delitto non serve altro. Ma le storie sono due, diverse e indipendenti. Quale sarà risultata così insostenibile da spingere l’assassino ad agire? In attesa di recuperare le prove necessarie, Bordelli dispone comunque anche di un particolare piuttosto inconsueto, emerso dall’autopsia di Badalamenti: nel suo stomaco è stato rinvenuto un anello su cui è inciso un nome di uomo. Secondo il medico legale Diotivede, deve essere stato ingoiato poco prima della morte. Ma perché?
I vecchi e i giovani
Intanto le indagini in corso portano Bordelli a conoscere alcuni ragazzi, tutti giovanissimi dell’ultima generazione nati dopo la guerra, che delle vicende e delle miserie di quel periodo terribile non vuole neppure più sentir parlare. Con loro Bordelli sarà costretto a rapportarsi anche sul piano umano ed esistenziale, in un confronto ineludibile e a tratti doloroso. Per non parlare dei turbamenti portati dalla bella Marisa, la ragazza ritratta nelle foto osé, che per qualche attimo ha il potere di occupare i pensieri ed i sogni del commissario, ricordandogli un amore passato, nella triste consapevolezza che da troppo tempo, ormai, è un uomo solo. Ma sul piano investigativo, sono tutti contatti relativamente inutili. Il fatto è che per quanto riguarda l’indagine, fin dall’inizio i sospetti del commissario sono caduti su qualcuno che gli ha istintivamente fatto provare un moto di simpatia e di solidarietà, pur intuendone l’atteggiamento poco sincero. Sono sentimenti dettati non solo dal disgusto nei confronti di Badalamenti, ma anche dall’umana partecipazione, dall’attrazione che esercita su di lui una mente vivace, intelligente, ironica, come quella del ragazzo in questione. Perché, sì, anche questo è un ragazzo, nei confronti del quale Bordelli finisce per esercitare un ruolo protettivo e consolatorio. C’è in questo rapporto persino una vena affettiva, vagamente – solo vagamente! – paterna, che non ha niente di professionale e piuttosto risponde anche al personalissimo senso della giustizia che anima il commissario. E che, come già si è detto, non risulta precisamente coincidente con quello della legalità. Le rivelazioni risolutive sul delitto arriveranno soltanto nelle ultime pagine del libro, quando il commissario, seppure controvoglia, dovrà ammettere, soprattutto con se stesso, che non è più possibile rinviare la resa dei conti. Ma in realtà non ci sarà alcuna sorpresa veramente nuova, se non quella della decisone ultima presa dallo stesso Bordelli…
Sardegna: anche Pietrino Piras indaga
In effetti, l’aspetto precipuamente “giallo” del romanzo rimane in subordine rispetto a svariati altri motivi narrativi e a spunti di riflessione estremamente interessanti. La componente poliziesca, però è arricchita da una seconda vicenda, una storia parallela che vede come protagonista Pietrino Piras, il giovane agente sardo figlio di Gavino, che era stato compagno e amico di Bordelli nel Battaglione San Marco. Convalescente da un brutta ferita riportata nel corso di una sparatoria, Pietrino trascorre un periodo in famiglia nella sua Sardegna. Negli anni Sessanta l’isola mantiene tanti elementi della tradizione culturale più antica accanto ad altrettanti segnali di evoluzione e rinnovamento. E, se indubbiamente rivela un generale avanzamento nelle condizioni economiche e sociali della popolazione, conserva, purtroppo ancora molti residui di povertà, ignoranza ed arretratezza, retaggio di una realtà che in altre regioni italiane è ormai completamente superata. Ecco dunque il perdurare delle usanze e delle attività forse millenarie, la pastorizia, l’allevamento, l’artigianato (con l’inevitabile corollario di miseria ed emigrazione), smentito dalla comparsa di qualche telefono, dalle favolose utilitarie, dal sogno della lavatrice, e soprattutto dalla presenza dei primi televisori, meraviglia della tecnica destinata a fungere – per qualche tempo – da polo di attrazione e aggregazione per diverse famiglie. E poi Vichi ci racconta e descrive la forza delle parentele e delle amicizie, la pratica del rispetto e della riservatezza, l’attaccamento alla terra e ai luoghi, quali caratteri distintivi dell’isolanità. E, insieme, i gusti e tendenze dei giovani, così nuovi e diversi dal conservatorismo dei padri, la loro voglia di evasione e novità a fronte della schematicità quasi manichea nell’attaccamento ai valori tradizionali da parte degli adulti.
Questa è la Sardegna di Piras, questa la realtà contraddittoria in cui lui stesso si trova. Intanto, in attesa di tornare a Firenze, il giovane trova qualcosa che movimenta le sue giornate. Perché anche qui a casa, seppure circondato dall’affetto, dall’amicizia di tanti che gli vogliono bene, coccolato e ammirato per la sua brillante prestazione professionale, Pietrino non può starsene del tutto tranquillo. Soprattutto, non può mettere a tacere la sua anima di poliziotto, che promette di farne, al suo ritorno in servizio, un investigatore di tutto rispetto. Così, quando Benigno, un pastore amico di famiglia, muore suicida, Pietrino capta immediatamente l’incongruenza di alcuni particolari. Grazie all’intuito, alla tenacia e al coraggio che lo contraddistinguono, pur agendo privatamente (ma col supporto “tecnico” di Bordelli, con cui è in costante contatto telefonico) riuscirà a dimostrare che non di suicidio si tratta, bensì di omicidio. Individuando il colpevole e smascherando nel contempo un feroce camerata delle Brigate Nere, responsabile in anni non troppo lontani di inenarrabili turpitudini.
L’Italia di Vichi: innovazione e conservatorismo
Quale può essere la funzione di questa vicenda collaterale nell’economia del libro, già tanto ricco e complesso? È un racconto apparentemente non necessario, che a prima vista appare addirittura dispersivo. Ma in realtà non è così. Innanzitutto, esso contribuisce a potenziarne la componente “gialla” richiesta dal genere, altrimenti forse troppo limitata, svolgendo una sorta di ruolo “correttivo”, indubbiamente utile per il mantenimento delle caratteristiche canoniche del genere. Non credo però che questo sia stato il principale obiettivo dell’autore, e del resto proprio la marginalità dell’indagine principale conferma come l’elemento poliziesco non sia il suo massimo interesse nella scrittura. Piuttosto, questa vicenda tutta isolana, che porta sulla scena un fascista veneto rifugiato in Sardegna sotto falsa identità, arricchito da loschi affari ed ora rigenerato quale sedicente imprenditore immobiliare, consente di animare l’affresco dell’Italia post-bellica, già ampiamente articolato ed esauriente, con ulteriori particolari e sfumature, colti da una prospettiva locale, periferica e fortemente connotata. È questo che, a mio parere, ciò che sta maggiormente a cuore a Vichi: la rappresentazione quasi storica dell’Italia, affidata soprattutto alla godibilissima ricostruzione di atmosfere, tendenze ed atteggiamenti e animata da tutta una serie di personaggi e figure, principali e minori, che, per tanti aspetti diventano paradigmatiche di un certo momento e di una certa condizione della vita nazionale.
Non solo la Sardegna, ma tutta l’Italia è colta in una situazione di transizione tra vecchio e nuovo, tra innovazione e tradizione, tra rimpianto di ciò che è stato e desiderio di cambiamento. Con alle spalle un panorama di rovine materiali e ideali, e di fronte un orizzonte che sembra cominciare finalmente ad illuminarsi. Eppure quest’Italia, ormai tutta proiettata verso la ricostruzione e la crescita economica, non ha in realtà mai veramente chiuso i conti col proprio imbarazzante passato prossimo. Anzi, nonostante i conclamati propositi di palingenesi (e di rimozione), non solo conserva leggi, consuetudini, accordi prodotti nel Ventennio, ma addirittura mantiene in ruoli istituzionali e professionali, spesso di potere e di prestigio, personaggi già compromessi col Regime, che il più elementare senso dello Stato e della Storia avrebbe voluto assicurati alla giustizia o almeno esclusi da certe funzioni pubbliche. Mai fatta davvero pulizia, dunque, come emerge con cristallina evidenza da uno dei tanti dialoghi telefonici tra Piras e Bordelli, quello del 27 dicembre. E senza cercare tanto lontano, come può mai Bordelli dimenticare che lo stesso questore Inzipone, suo diretto superiore, non per caso si era trovato a dover aderire alla RSI?
La crisi di Bordelli
La tematica storica e di costume, ricorrente in tutto il corso del libro, fa da sfondo e da cassa di risonanza alla figura del protagonista, il commissario Franco Bordelli, e non a caso è spesso affidata proprio ai ricordi e alle rievocazioni di lui, o ai discorsi e ai racconti dei suoi amici ed interlocutori. Stando a quanto afferma lo scrittore, in Bordelli è da vedere l’alter ego del padre, che realmente aveva militato e combattuto nel Battaglione san Marco (quello badogliano, naturalmente!) e tante volte aveva saputo catturare l’attenzione del piccolo Marco con i racconti avventurosi di quell’esperienza. Ci sono, infatti nel libero, le vicende della storia personale intrecciate a quelle della grande Storia, la guerra e la profonda, irresistibile avversione per ogni forma di sopruso e sopraffazione.
Ma il commissario è qui ritratto – come sempre nei libri di Vichi – a tutto tondo anche nei suoi aspetti caratteriali e psicologici, come nella varietà talvolta imprevedibile delle sue numerose relazioni interpersonali. Nel privato e nel lavoro ritroviamo il solito Bordelli, insofferente di regolamenti burocratici e imposizioni ipocrite, sincero fino all’irriverenza, impulsivo fino all’insubordinazione, comprensivo con i poveri diavoli, critico verso i detentori grandi e piccoli di un qualsivoglia potere. E sempre animato da un senso del bene e del male incrollabile, benché spesso trasgressivo. Al punto tale che l’omicidio di uno strozzino, per lui, non è poi così grave. Sarà anche un reato, ma certo non è una colpa.Non un atto di barbara vendetta, ma un’azione benefica per la comunità. Ragion per cui lasciare andare impunito il responsabile non può essere considerata una un’imperdonabile omissione, bensì un gesto di giustizia. È anche il Bordelli dalle amicizie un po’ strampalate, ma umanamente ed intellettualmente interessanti e ricchissime, come l’ineffabile medico legale Diotivede, che a settant’anni suonati proprio non vuole andare in pensione, e Dante, il bizzarro inventore di cento aggeggi più o meno utili. E poi una serie di altre figure, tutte, pur nella modestia della loro cultura e della condizione sociale, preziose per sentimento e saggezza, come innanzitutto la dolce Rosa, l’ex prostituta ingenua come una bambina, l’onesto ladruncolo Ennio Bottarini detto il Botta, il cuoco Totò, e tanti altri. Questo è il Bordelli che solidarizza con gli umili, i poveracci che finiscono ai margini della società e della legalità più per colpa di un destino carogna che per vera disonestà o cattiveria.
Di nuovo, rispetto ai libri precedenti, c’è invece l’insinuarsi di una sottile inquietudine che rende il nostro commissario più ombroso e tormentato del solito, un’insistente malinconia sospesa come una cappa di nebbia sopra le sue giornate. L’accentuata solitudine sentimentale intrisa di penosa nostalgia per la bella Milen, amata e presto perduta (Una brutta faccenda, 2003), non può essere totalmente alleviata dalle amicizie, pur numerose ed affezionate. Il lavoro troppo spesso lo porta a contatto con uomini e situazioni che sarebbe maglio dimenticare e – soprattutto – obbliga a sperimentare direttamente l’inestinguibile forza del male. Al punto tale che Bordelli comincia a vagheggiare l’idea di abbandonare tutto, lasciare la città e trasferirsi in campagna a coltivare l’orto, persino dimettersi dalla polizia, lasciando quella che era stata una scelta di vita profondamente sentita, e partecipata con un coinvolgimento um ano ed etico che andava ben oltre i limiti del dovere professionale. Perché, all’arrivo della mezza età, il commissario è stanco, depresso, deluso. La riflessione sulla precarietà delle cose umane – l’incalzare della vecchiaia e lo spettro della morte e, prima ancora, della malattia e della decadenza – si fa ora più insistente e tormentosa. Trovando narrativamente concretezza nel racconto degli inutili tentativi di adottare uno stile di vita più sano: dal proposito di limitarsi nelle abbuffate da Totò, agli elaborati piani (tutti fallimentari) per smettere di fumare, presentandoci un’infinita serie di “ultime sigarette” di sveviana memoria.
Ma quello che più lo sconvolge ed è il vero responsabile della sua crisi è il confronto fra con i giovani nuovi alla vita, privi dell’esperienza forte del Ventennio e della guerra, ma solo in apparenza svagati ed inconsapevoli: in realtà portatori di una concezione diversa dell’esistenza, tutta proiettata al futuro, e non necessariamente sbagliata. Bordelli, osserva, registra, e pensa. Non si riconosce in nulla di ciò che costituisce la nuova realtà: non può, lui che a tutti gli effetti ormai è un matusa e a volte non riesce neppure a decodificarne il lessico. Può solo prenderne atto, con malinconia. Eppure, valutando spassionatamente, a tratti riesce pure ad apprezzare le novità. Il modo di atteggiarsi dei ragazzi, quel loro fare informale e dissacrante, il loro modo libero di vestirsi, stare insieme, fare musica, persino quelle loro sigarettine procurate dalla tenera Rosa, tanto più gustose del tabacco nazionale…no, non proprio tutto è da buttare.
Stagioni della vita e della storia
Conoscere tutti quei ragazzi era stata una cosa interessante, ma anche un po’ penosa. Davanti a loro si era sentito goffo e ingombrante, inadeguato al mondo che sentiva arrivare. Ma la sua grande paura era quella di diventare un vecchio pieno di rimpianti.[…] Spense la cicca e si girò su un lato. Avrebbe voluto addormentarsi, ma fuori cominciò il finimondo. Sembrava di essere dotto un bombardamento. Il ’66 era appena cominciato.
Sono le ultime parole del libro. È giunto il momento dei bilanci. Pur stanco e sfiduciato, Bordelli non ha perso la propria integrità intellettuale né la capacità d’autocritica. E lui dunque sa accettare, seppure con una punto di rimpianto, il fatto che una fase della storia – e della vita – è definitivamente conclusa. La sua stagione è finita. Ma, alla vigilia di quella che sarà la grande svolta epocale rappresentata dal Sessantotto, non si tratta semplicemente di farsi da parte, in uno sterile atteggiamento di chiusura ed apatia, quanto piuttosto di guardare avanti e riconoscere onestamente la necessità di un ricambio generazionale. E allora, se davvero, come Marco Vichi ha più volte dichiarato, nella figura di Franco Bordelli è adombrata quella di suo padre, anche in questo ideale passaggio di consegne mi piace vedere una componente autobiografica, di identificazione personale ed affettiva. Chiuso il tempo di Bordelli, si apre la prospettiva della nuova epoca, che è appunto quella dello scrittore: come il commissario con i suoi giovani interlocutori, Vichi padre cede il testimone al figlio. E questi, nel momento stesso cui con la propria opera intende rendere omaggio della figura paterna, si impegna a consegnare alla memoria gli anni e le vicende appena trascorse, facendosene interprete e cantore.