Sempre più difficile!
Quello che segue è un racconto scritto da un autore italiano, le cui iniziali sono: G.P.
Sono stati cambiati i nomi propri delle persone ed è stata omessa la località dove si trova l’abbazia di san Benedetto. In compenso, sono stati lasciati nel testo alcuni indizi fondamentali per capire dove è ambientato il racconto. Tuttavia, rispetto all’originale, una volta è stata italianizzata un’espressione dialettale e in un altro caso un punto caratteristico della città è stato lievemente “mimetizzato”.
In sintesi, le cose da indovinare sono queste:
- La città in cui si svolgono i fatti
- La località dove si trova l’abbazia citata
- Il nome vero dell’artista che sta lavorando ai rilievi della cattedrale
- Il ruolo del personaggio chiamato Gregorio
- Il punto della città dove cade “l’angelo”
- In modo come viene chiamata dai locali la pietra degli arringatori
- Il nome dell’autore del racconto
Buona indagine!
***
La cattedrale incompiuta si erge bianca sotto la luna e sembra tentare di saldarsi al cielo. Le case della città, quelle di paglia e fango, e le poche di mattoni, appaiono misere ombre al confronto del monumento che dovrà sancire la superiorità della Chiesa secondo la riforma voluta da Gregorio. Gottifredo, insonne, si aggira tra pareti e impalcature, tra cumuli di pietre e di sabbia. Muratori, manovali, carpentieri e scalpellini dormono, e il silenzio anticipa la sacralità dell’edificio. L’officina di Gottifredo occupa un’area di terra battuta protetta da un tetto di paglia sorretto da pali. Soltanto una torcia rischiara le statue, i bassorilievi, i blocchi di marmo lavorati, sbozzati o intatti. Più che illuminare, il tremito della fiamma confonde le ombre e dà loro un’effimera vita. Lo scultore si sofferma per qualche istante a osservare la muta folla che ha costruito con le sue mani, e per quel breve tempo si sente potente come un creatore eccelso.
Subito chiede perdono a Dio, e si inoltra di più nell’officina. Viste da vicino, le creature di pietra riacquistano le loro forme reali. Passa accanto a un genietto e gli accarezza i capelli. Si ferma di fronte al rilievo che rappresenta l’uccisione di Abele: nella penombra, il gesto di Caino che cala il bastone sul cranio del fratello gli sembra troppo violento. Decide di rifare la lastra: Caino dovrà soltanto appoggiare l’arma sul capo di Abele; tutta l’energia e la crudeltà saranno sul volto del fratricida che con un piccolo gesto deve esprimere un grande peccato.
Passa oltre, attirato dall’ombra troppo chiara (forse pietra d’Istria) di una scultura che, a questa distanza, sembra una figura muliebre. Deve trattarsi dell’opera recente di un discepolo. Ma ecco che la figura si muove e gli viene incontro.
“Maestro, perdonami se ti ho spaventato.”
“Chi sei? Cosa cerchi qui?”
“La gente della città mi ha battezzato Gaia, ma io sono un angelo… Sono venuta a cercare te.”
Indossa una tunica di canapa, smunta come il viso magro che possiede tracce di una dolcezza davvero celestiale, anche se non somiglia a nessuno degli angeli raffigurati nei dipinti, nei mosaici o nella pietra.
“Non mi credi? Sono caduta dal cielo della città il giorno in cui, per la curiosità di ascoltare due donne che cantavano, mi ero portata a tiro della balestra di un cacciatore. La freccia mi colpì di striscio, ma proprio sulla sommità della testa, facendomi perdere i sensi, la memoria e un poco anche la ragione.”
“E le ali?” domandò Gottifredo, divertito dall’impudenza della donna. Lei solleva la tunica e mostra le spalle nude, rigate da due grosse cicatrici.
“Mio signore, questa è la parte più triste della storia! Caduta in un abisso, sono stata salvata da alcuni uomini disonesti che invece di medicarmi la ferita e restituirmi la libertà, come si fa con un falco ferito, mi incatenarono e mi trascinarono sulla piazza del mercato, intenzionati a vendermi al migliore offerente, così come alcuni fanno con i falchi feriti, fingendo che li si possa addestrare alla caccia come i falchi allevati in cattività. La città quel giorno era piena di mercanti, saltimbanchi e cantastorie, e di tutta una folla di chierici vaganti, imbonitori, guaritori e barbieri, ciascuno con una meraviglia da mostrare alla gente: chi possedeva una gallina con la testa di serpente, chi mostrava una sirena di palude impagliata, metà donna metà rospo, chi minacciava le fiamme dell’inferno esibendo un vaso pieno di unghie di demoni, più grosse degli artigli delle aquile. Così quando i briganti mi fecero salire sulla pietra degli arringatori e mi offrirono in vendita, nessuno si fece avanti e nessuno mostrò grande interesse. Villici e cittadini erano convinti che l’angelo fosse un altro inganno, e le sue ali attaccate con l’ago e il filo, così come alla gallina era stata cucita la testa di una biscia. Come se non bastasse, un chierico si fece avanti e minacciò i briganti di frustate, e di altre punizioni durante questa vita e durante quella a venire, per avere messo in catene un angelo, sempre che si trattasse di un vero angelo. Esasperati, quegli uomini disonesti mi portarono in campagna, recisero a colpi di roncola le mie ali, fasciarono le ferite e mi riportarono al mercato per vendermi come una serva. Mi comprò per pochi soldi un mercante di Mantova. Sono scappata dopo avere visto nell’abbazia di san Benedetto le figure da te scolpite. Ho deciso che il più grande dei maestri avrebbe usato il mio viso e il mio corpo per rappresentare Eva. Intanto sarò la tua serva e potrai disporre di me come vorrai…”
“Come hai detto che ti chiami?”
“Gaia.”
“Gaia, sapevo le donne modenesi disinvolte e ricche di fantasia, ma tu le batti tutte. Per offrirmi i tuoi servigi hai inventato una storia alla quale soltanto un pazzo potrebbe credere.”
“Anche un santo.”
“Sì, e anche un artista, che ha il dovere di essere un poco pazzo e un poco santo…”
“Significa che mi prendi con te?”
“Il tuo padrone potrebbe venire a reclamarti.”
“Sei abbastanza ricco da riscattarmi. Sarai padrone di un angelo.”
“Ti tradisce la lingua che parli, e le tue maniere. Sarò soltanto padrone di una serva stanca di appartenere a uomini che l’hanno maltrattata.” Nel guidarla verso la torcia, la mano di Gottifredo posata sulla spalla percepisce soltanto ossa. Ma il viso gli piace, e anche la figura, così sottile e delicata. Guardandola meglio scopre che già somiglia a una sua scultura: un corpo senza peccato, dai contorni maschili e femminili insieme. Dio è maschio o femmina? Spesso Gottifredo si è posto questo interrogativo, senza mai trovare il coraggio di esprimerlo ad alta voce.
“Perché hai scelto Eva? Se davvero eri un angelo dovresti chiedermi di restituirti la tua immagine alata.” Gaia non esita:
“Durante i giorni trascorsi senza le ali, ho incontrato troppe donne in catene, considerate da padroni o mariti alla stregua delle bestie. Anzi, sono in molti ad amare più il maiale della propria donna, salvo poi riservare all’animale un destino anche peggiore. Tu scolpirai Eva, la nuova prima donna di un mondo più giusto.”
“Gaia, pretendi troppo da un povero scultore!”
Gottifredo siede alla mensa di Antelmo, nel refettorio del monastero, al cospetto dei monaci più anziani, mentre un monaco giovanissimo, imberbe, legge le sacre scritture.
“Potrò impegnarmi a lavorare per l’abbazia di San Silvestro soltanto dopo che in città i resti mortali di San Geminiano saranno trasferiti nella nuova cattedrale.”
“Per allora io sarò certamente morto” osserva Antelmo. Sorride pacatamente, quasi rallegrato dall’idea della morte. Deve avere almeno ottant’anni, ma le gambe e i pensieri ne dimostrano trenta di meno, e anche la sua bocca che è la più alacre del refettorio, contando anche quella di Gottifredo che di anni ne ha la metà. Lo stufato di ghiri in salsa dolce, e il vino nero come la pece, stemperano un poco la soggezione che lo scultore prova per il venerabile abate, ma lo rendono anche più buono, così, quando Antelmo ripete la richiesta, raccontando:
“Ho sognato che le colonne del portale della nostra abbazia poggiavano su due leoni scolpiti da te…” Gottifredo non sa che rispondere:
“Domerò i leoni di marmo affinché sostengano le colonne della tua chiesa.” Giunti allo sformato di cinghiale, cotto con mele e fichi, fidando ancora sull’arrendevolezza dello stomaco, Antelmo chiede a Gottifredo di preparare anche la lunetta del portale. Alle anguillette in salsa di noci, con il più candido dei sorrisi, dice che siccome il tre è un numero sacro, come dimostra la Santa Trinità, tanto vale completare l’intervento con un terzo lavoro: può scegliere tra il pulpito e i capitelli della navata centrale. Non resta a Gottifredo che rifiutare le altre portate, e ribadire la promessa dei leoni e del lunotto, da eseguire non prima di un anno. Soddisfatto, l’abate Antelmo si concede una coppa di vino.
“A Modena mi hanno mostrato le quattro lastre con le storie della Genesi. Sono rimasto colpito in particolare da Adamo ed Eva. Mi dicono che per scolpire la donna ti sei ispirato a una giovane della città, che oggi vive nella tua casa…” Non è una domanda, e Gottifredo, prima di dire qualcosa, aspetta di capire dove vuole parare l’abate. Forse intende accusarlo di comportamento immorale in quanto la donna va e viene dal cantiere, dall’officina e dalla sua casa con la disinvoltura di una padrona. Oppure è a conoscenza della favola dell’angelo abbattuto, e intende accusare Gaia di avere bestemmiato nell’inventare una propria origine celeste… Ma Antelmo non aggiunge altro, e tutti guardano Gottifredo, perfino il giovane che ha sospeso la lettura delle sacre scritture. Lo scultore deve per forza dire qualcosa:
“Volevo che Eva avesse il volto di una donna di questa terra, una donna che ha molto sofferto.”
“Hai scelto bene, Gottifredo.”
°°°
La casa è vuota. Gottifredo cerca Gaia nell’officina, nel cantiere. Chiede di lei agli uomini che lavorano. Nessuno l’ha più incontrata da ieri. Inutile cercarla altrove: se vuole nascondersi riuscirà a non farsi trovare. Torna a casa, siede sulla panca dove ieri sera era seduta. Gaia è una donna che non sopporta padroni, neppure padroni generosi come Gottifredo, il maestro che ha esaudito il suo desiderio di essere Eva nella pietra della cattedrale. Gottifredo raccoglie una piuma dal pavimento sotto la finestra aperta. Deve averla perduta uno dei colombi che i modenesi allevano con tanto interessato amore.
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