Come in un altro quiz pubblicato precedentemente, bisogna indovinare il nome della città di cui si parla e di alcuni luoghi ad essa pertinenti. QUESTO NON E’ DIFFICILE!
Bisogna farsi dare un posto dal lato del finestrino e sperare di arrivare in una giornata limpida e soleggiata. Ce ne sono anche d’inverno, perché in ogni stagione la Città ci tiene a fare sempre la sua figura. Quando l’aereo comincia ad abbassarsi, dal finestrino appaiono le scogliere rosse di … indovina!, e il mare color turchese e blu senza che si possa dire dove finisce il blu e dove comincia il turchese. Persino le case, i cosiddetti villini, ti possono sembrare magari troppi, ma visti dal cielo non mostrano la sciatteria con pretese di originalità che invece rivelano nell’inquadratura dal basso. Tu osservi tutto questo e pensi di essere arrivato nel posto più bello del mondo. Ammettilo: credevi di esserti fatto un’idea della Città e dell’Isola perché è difficile sfuggire ai luoghi comuni; ma di fronte allo spettacolo della costa intorno all’aeroporto ogni pregiudizio cade all’istante.
Guardando dal finestrino hai il tempo di formulare pensieri del genere, di struggerti di fronte a tanta bellezza, persino di riflettere sull’ipotesi di mollare tutto – lavoro, famiglia, radici – per venire a vivere da queste parti. E quando ormai la tua testa si è scaldata all’idea di un’estate perenne, ecco che subito arriva un contrordine. Arriva sempre dal finestrino, perché mentre hai ancora gli occhi pieni di luce e mare, ecco che ti si para davanti una montagna. Un’enorme montagna grigia su cui l’aereo sembra destinato a schiantarsi da un momento all’altro.
L’aeroporto di Punta Raisi è costruito su una stretta lingua di terra che separa il mare dalla montagna; tanto che in passato è successo che un aereo sia finito sulla montagna (quando?…indovina!,) e un altro in mare (quando?…indovina! ). L’aeroporto della Città è fatto così. La Città è fatta così. Tu, viaggiatore, queste cose prima di partire le sapevi, ma le avevi dimenticate di fronte all’accecante bellezza del paesaggio. Adesso magari ti fai prendere da una leggera forma di panico, perché la montagna si avvicina, e si avvicina in maniera preoccupante. Ma puoi stare tranquillo, alla fine non succederà niente perché i piloti ormai sono bravi a infilarsi esattamente nella striscia praticabile fra mare e montagna, e nel susseguente sollievo avrai modo di riflettere sul fatto che la Città ha provveduto ad avvertirti subito: non credere che le cose da queste parti siano sempre come appaiono a prima vista. Non è che tu ti possa abbandonare alla contemplazione del bello come se fossimo in Polinesia o nella campagna toscana. Qui non c’è da fidarsi, e anzi è proprio quando sembra di aver raggiunto l’estasi che arriva il cazzotto sullo sterno, quello che ti leva il fiato e ti costringe a riprendere la misura del distacco dalle cose.
La difficoltà del pilota in fase di atterraggio, il problema di evitare gli opposti disastri di mare e montagna, è una metafora delle difficoltà quotidiane che comporta il fatto di vivere nell’Isola in generale e nella Città in particolare; che dell’Isola è, oltre che capitale, anche una specie di grandiosa esasperazione. Meglio dunque non rilassarti mai, tenere i sensi sempre all’erta. Da un momento all’altro potrebbe succedere qualcosa di irreparabile.
Una volta recuperato il bagaglio – operazione anche questa non facile a indovina!: non proprio come atterrare, ma quasi – prendi un taxi e tieni gli occhi aperti. Per capire una città, tante volte basta fare il tragitto che va dall’aeroporto al centro. Nell’impossibilità di una visita più approfondita – mentre si aspetta una coincidenza, magari – basta prendere un taxi, andare e tornare. Nel tragitto autostradale c’è buona parte di ciò che la città, consciamente o inconsciamente, ci tiene a far sapere di sé. Non è tutto, né è tutto spontaneo. Ma tenendo gli occhi aperti almeno qualcosa si riesce a capire. Fra l’aeroporto e il centro si trova il biglietto da visita della città. Ci sono città che questo lo sanno, ne tengono conto e curano la propria immagine mettendo in mostra il meglio; e ci sono città che invece se ne fregano dell’immagine e lasciano fare al caso. La Città appartiene a questa seconda categoria. Tuttavia anche il caso si riserva le sue sottigliezze, e nel giro di pochi chilometri ha provveduto a distribuire almeno tre punti focali.
Il primo di questi punti arriva quasi subito. Guardando a sinistra, verso il mare, più o meno all’altezza di … indovina!, vedrai una bidonville costruita direttamente sulla spiaggia. Lo stato di abbandono in cui versano le baracche, il fatto che sembrino costruite con materiali raccolti in una discarica, che siano corrose dalla salsedine, tutto lascia pensare che si tratti di un quartiere abusivo per necessità. Gente costretta a vivere in condizioni da terzo mondo. Magari sei autorizzato a immaginare che qualcuno avrà fatto il furbo trasformando la necessità in virtù: dovendosi costruire un tetto sotto il quale dormire, tanto valeva costruirselo in riva al mare. E invece no, nessuna necessità abitativa: queste baracche sono le seconde case degli abitanti della Città. Le case dove la gente si trasferisce d’estate per fare la villeggiatura.
A suo tempo vennero costruite secondo le regole del far west. Oggi chi vuole fare lo spiritoso la chiama edilizia creativa, sebbene l’espressione stia poco a poco perdendo la sua connotazione sarcastica, e presto edilizia creativa diventerà uno stile a se stante. I muri non sono intonacati perché poi ci sarà tempo di intonacarli. I tondini di ferro spuntano dal tetto perché non è detto che un domani non si riesca a realizzare un altro piano per la figlia che si sposa. Le case si lasciano incompiute nelle parti esterne per diversi motivi; alcuni pratici e altri, per così dire, etici. Intanto si aspetta sempre una sanatoria che consenta di rendere l’abitazione ineccepibile anche all’occhio fiscale dello Stato. E poi c’è il fatto che l’interno è una cosa e l’esterno un’altra. Nell’Isola quel che avviene un passo oltre la soglia di casa è considerato superfluo, se non addirittura volgare. Per rendersene conto basta visitare un condominio. Un condominio qualsiasi, dove abita anche gente ricca. Se ti capita, facci caso: dopo le sei del pomeriggio ogni appartamento avrà un sacchetto di spazzatura poggiato per terra appena fuori dall’uscio. Nelle ore precedenti il sacchetto si è andato riempiendo, fino a quando la brava madre di famiglia si è incaricata di farne una confezione da relegare fuori dalla sacra cerchia delle mura di casa. Appena possibile la spazzatura va messa a carico della comunità, fosse anche solo quella comunità solidale che è il pianerottolo di un condominio. Una volta chiuso e annodato, il sacchetto non riguarda più gli abitanti della casa. L’immondizia appartiene alla sfera pubblica. La casa deve rimanere inviolabile dalle sporcizie del mondo. Perciò c’è da scommettere che l’arredamento interno delle case sul litorale di …indovina! si è curatissimo, in pieno contrasto con l’aspetto esterno. Dell’aspetto esterno i proprietari se ne fregano, non è particolare che li riguardi. La facciata esterna è spazzatura, e come tale riguarda lo Stato.
Ma c’è pure un altro motivo per cui queste case sono tanto sciatte a vedersi. Gli abitanti della Città nutrono un’avversione scaramantica per ogni forma di compiutezza. Se inaugurano un teatro, lo fanno sempre in assenza di qualche requisito essenziale per il pieno funzionamento. Se si costruisce una diga saranno le canalizzazioni a restare incompiute. Al completamento si penserà poi, se e quando sarà possibile. Dietro questa sistematica inconcludenza è possibile rintracciare un profilo ancestrale di superstizione. Sembra quasi che gli abitanti della Città inconsciamente avvertano che nella piena compiutezza è inscritta un’infelicità latente. Sopravvive l’antica credenza che l’appagamento possa attrarre il malocchio degli invidiosi, ma non è solo questo. Il vero timore riguarda lo sconforto che deriva dal non avere qualcosa che pensavi di avere una volta che finalmente hai avuto tutto quello che desideravi avere. C’è sempre qualcosa che sfugge alle maglie anche strette della rete che ci siamo fabbricati con le nostre mani. Allora tanto vale lasciare che le cose vengano come vengono. Forse è addirittura un retaggio arabo. Nella perfezione della tessitura dei loro tappeti gli antichi maestri persiani introducevano sempre un piccolissimo errore. Lo facevano apposta per non sfidare Dio sul terreno che è solo di Sua competenza. Quello della perfezione, appunto. Ma qui, nelle case davanti al mare di …indovina!, si è decisamente esagerato con questa forma di devozione.
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