Siamo alla SESTA puntata del racconto da continuare e inventare in modo autonomo.
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Le amiche trovarono divertente la caccia all’oggetto curioso; insieme perlustrarono mercati di cianfrusaglie, interpellarono vecchi fotografi ambulanti, li seguirono nei loro stambugi. In quei cimiteri di materiale fuori uso giacevano colonnine, paraventi, fondali dipinti con sfumati paesaggi; tutto ciò che evocava un vecchio studio di fotografo, Natalino lo comprava. Alla fine riuscì a mettere le mani su una macchina a cassetta, con lo scatto a pera. Sembrava funzionasse perfettamente. Natalino la comprò con un assortimento di lastre. Aiutato dalle amiche, in una stanza del suo alloggio installò lo studio, tutto d’oggetti antiquati, tranne due moderni riflettori.
Adesso era soddisfatto. – Bisogna ripartire di qua, – spiegò alle amiche. – Nel modo in cui i nostri nonni si mettevano in posa, nella convenzione secondo la quale venivano disposti i gruppi, c’era un significato sociale, un costume, un gusto, una cultura. Una fotografia ufficiale o matrimoniale o familiare o scolastica dava il senso di quanto ogni ruolo o istituzione aveva in sé di serio e d’importante ma anche di falso e di forzato, d’autoritario, di gerarchico. Questo è il punto: rendere espliciti i rapporti col mondo che ognuno di noi porta con sé, e che oggi si tendono a nascondere, a far diventare inconsci, credendo che in questo modo spariscano, mentre invece…
– Ma chi è che vuoi far posare?
– Venite domani e comincerò a farvi delle foto come dico io.
– Ma di’, dove vuoi arrivare? – fece Katya, presa da
un’improvvisa diffidenza.
Solo adesso, nello studio installato, vedeva che in esso tutto aveva un’aria sinistra, minacciosa. – Te lo sogni che veniamo a farti da modelle!
Ines ridacchiò con lei, ma l’indomani tornò a casa d’Natalino, sola.
ADESSO CONTINUA TU, OPPURE…
ARRIVEDERCI ALLA SETTIMA PUNTATA!
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