Siamo alla NONA puntata del racconto da continuare e inventare in modo autonomo. Per vedere la puntata precedente, clicca qui.
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Ines si prestava docilmente a eseguire i suoi ordini anche quando si facevano imprecisi e contraddit-tori, con una passività che era anche un dichiararsi fuori del gioco, eppure in qualche modo insinuando , in questo gioco non suo, le imprevedibili mosse d’una sua misteriosa partita. Quello che ora Natalino attendeva da Ines dicendole di mettere le gambe e le braccia così e così, non era tanto la semplice esecuzione d’un programma, quanto la risposta di lei alla violenza che egli le andava facendo con le sue richieste, una imprevedibile aggressiva risposta a questa violenza che egli era sempre di più portato a esercitare su di lei.
Era come nei sogni, pensò Natalino, contemplando seppellito nel buio quell’improbabile tennista filtrata nel rettangolo di vetro: come nei sogni quando una presenza venuta dalla profondità della memoria s’avanza, si fa riconoscere, e poi subito si trasforma in qualcosa d’inaspettato, in qualcosa che prima ancora della trasformazione già spaventa perché non si sa in che cosa potrà trasformarsi.
Voleva fare la foto ai sogni? Questo sospetto lo ammutolì, nascosto in quel rifugio da struzzo, la peretta dello scatto in mano, come un idiota; e intanto Ines, lasciata a se stessa, continuava una specie di danza grottesca, immobilizzandosi in esagerati gesti tennistici, rovescio, drive, levando alta la racchetta o abbassandola al suolo come se lo sguardo che usciva da quell’occhio di vetro fosse la palla che lei continuava a respingere.
– Basta, cos’è questa commedia, non è così che intendevo, – e Natalino coperse la macchina col drappo, prese a passeggiare per la stanza.
Era quel vestito la colpa di tutto, con le sue evocazioni tennistiche e prebelliche… Bisognava ammettere che in vestito da passeggio una foto come diceva lui non si poteva fare. Ci voleva una certa solennità, una certa pompa, come le foto ufficiali delle regine. Solo in abito da sera Ines sarebbe diventata un soggetto fotografico, con la scollatura che segna un confine netto tra il bianco della pelle e lo scuro della stoffa sottolineato dal luccichio dei gioielli, un confine tra un’essenza di donna atemporale e quasi impersonale nella sua nudità e l’altra astrazione, sociale questa, dell’abito, simbolo d’un ruolo altrettanto impersonale, come il drappeggio d’una statua allegorica.
S’avvicinò a Ines, si mise a sbottonarla sul collo, sul petto, a far scorrere il vestito sulle spalle. Gli erano venute in mente certe fotografie di donna ottocentesche, in cui dal bianco del cartoncino emerge il viso il collo la linea delle spalle scoperte, e tutto il resto svanisce nel bianco.
Quello era il ritratto fuori dal tempo e dallo spazio che ora lui voleva: non sapeva bene come si faceva ma era deciso a riuscirci. Piazzò il riflettore addosso a Ines, avvicinò la macchina, armeggiò sotto il drappo per regolare l’apertura dell’obiettivo. Guardò. Ines era nuda.
ADESSO CONTINUA TU, OPPURE…
ARRIVEDERCI ALLA DECIMA PUNTATA!