Siamo alla DODICESIMA puntata del racconto da continuare e inventare in modo autonomo. Per vedere la puntata precedente, clicca qui.
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Natalino cadde in una crisi depressiva. Cominciò a tenere un diario: fotografico, s’intende. Con la macchina appesa al collo, chiuso in casa, sprofondato in una poltrona, scattava compulsivamente con lo sguardo nel vuoto. Fotografava l’assenza di Ines.
Raccoglieva le foto in un album: vi si vedevano portacenere pieni di mozziconi, un letto sfatto, una macchia d’umidità sul muro. Gli venne l’idea di comporre un catalogo di tutto ciò che nel mondo esiste di refrattario alla fotografia, di lasciato fuori sistematicamente dal campo visivo non solo delle macchine ma degli uomini. Su ogni soggetto passava giornate, esaurendo rotoli interi, a intervalli di ore, in modo da seguire i mutamenti della luce e delle ombre. Un giorno si fissò su un angolo della stanza completamente vuoto, con un tubo del termosifone e nient’altro: ebbe la tentazione di continuare a fotografare quel punto e solo quello fino alla fine dei suoi giorni.
L’appartamento era lasciato nell’abbandono, fogli e vecchi giornali giacevano spiegazzati al suolo, e lui li fotografava. Le foto sui giornali venivano fotografate anch’esse, e un legame indiretto si stabiliva tra il suo obiettivo e quello di lontani fotoreporter. Per produrre quelle macchie nere la lente d’altri obiettivi s’era puntata su cariche della polizia, auto carbonizzate, atleti in corsa, ministri, imputati.
Natalino ora provava un particolare piacere a ritrarre gli oggetti domestici inquadrati da un mosaico di telefoto, violente macchie d’inchiostro sui fogli bianchi. Dalla sua immobilità si sorprese a invidiare la vita del fotoreporter che si muove seguendo i moti delle folle, il sangue versato, le lacrime, le feste, il delitto, le convenzioni della moda, la falsità delle cerimonie ufficiali; il fotoreporter che documenta sugli estremi della società, sui più ricchi e sui più poveri, sui momenti eccezionali che pure si producono a ogni momento in ogni luogo.
-Vuoi dire che solo lo stato d’eccezione ha un senso? – si domandava Natalino.
– È il fotoreporter il vero antagonista del fotografo domenicale? I loro mondi si escludono? Oppure l’uno da un senso all’altro?- e così riflettendo prese a fare a pezzi le foto con Ines o senza Ines accumulate nei mesi della sua passione, a strappare le filze di provini appese ai muri, a tagliuzzare la celluloide delle negative, a sfondare le diapositive, e ammucchiava i residui di questa metodica distruzione su giornali distesi per terra.
-Forse la vera fotografia totale, – pensò, – è un mucchio di frammenti d’immagini private, sullo sfondo sgualcito delle stragi e delle incoronazioni-.
Piegò i lembi dei giornali in un enorme in volto per buttarlo nella spazzatura, ma prima volle fotografarlo. Dispose i lembi in modo che si vedessero bene due metà di foto di giornali diversi che nell’involto si trovavano per caso a combaciare. Anzi, riaprì un po’ il pacco perché sporgesse un pezzo di cartoncino lucido d’un ingrandimento lacerato. Accese un riflettore; voleva che nella sua foto si potessero riconoscere le immagini mezzo appallottolate e stracciate e nello stesso tempo si sentisse la loro irrealtà d’ombre di inchiostro casuali, e nello stesso tempo ancora la loro concretezza d’oggetti carichi di significato, la forza con cui s’aggrappavano all’attenzione che cercava di scacciarle. […]
RICORDATI CHE QUESTA E’ L’ULTIMA PUNTATA: ORA MANCA SOLO LA CONCLUSIONE.
CONTINUA TU, OPPURE… ARRIVEDERCI ALLA CONCLUSIONE DEL RACCONTO “MANIPOLATO”
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