COLLETTIVO SABOT (AURIEMMA- COSMO- PULIXI), Padre Nostro, Rizzoli, 2014
Ricordate l’appuntamento in Biblioteca con Stefano Cosmo,
giovedì 16 ottobre 2014, alle 20.30!!!
Confesso di trovarmi un po’ in difficoltà a presentare la trama di Padre Nostro, e non perché i fatti narrati siano di difficile comprensione o la vicenda troppo complicata. Neanche perché, al contrario, il libro giochi su atmosfere impalpabili ed evanescenti, difficilmente riconducibili al concreto della sintesi. No: pur trattandosi di una storia oggettivamente complessa, è tutto chiaro e tecnicamente riassumibile. La difficoltà nasce piuttosto dalla volontà e dall’esigenza di non svelare elementi essenziali del racconto, guastando il piacere della lettura. Che per un libro come questo, dove colpi di scena, cambiamenti di visuale, rovesciamenti di prospettiva e smantellamento delle aspettative si trovano una pagina sì e l’altra pure, sarebbe davvero imperdonabile. Suspence e sorpresa sono infatti gli elementi dominanti del romanzo, supportati da scene mozzafiato, dialoghi fulminanti, azioni condotte sul filo di lama.
E non crediate che il Padre Nostro del titolo sia quello che sta nei Cieli, o che comunque si tratti di un’allusione al carattere pio e misericordioso dei personaggi. Di pio e misericordioso qui non c’è proprio niente, anche se, per la verità, i protagonisti sono devotissimi e per tutte le loro faccende innalzano accorate implorazioni alla Madonna. Solo che la Virgencita cui si rivolgono è nientemeno che Nuestra Señora de los Sicarios e le faccende di cui si diceva sono tutti atti criminosi tra i più efferati. Perché, sì, i protagonisti – tutti tostissimi – sono sicari, assassini, delinquenti e malavitosi di vario genere e livello, e pertanto tutto il loro agire dà vita ad un intero repertorio di nefandezze. Ne è derivata una vicenda nera, costruita e raccontata con consumata abilità, mantenendo la narrazione sempre al vertice della tensione, per cui l’attenzione di chi legge è catturata e tenuta prigioniera dall’inizio alla fine. Ecco perché riassumere non è facile, se non si vuole rischiare di dire qualcosa di troppo. Infatti, già semplicemente rivelando l’identità del protagonista principale, infatti, si entra nel vivo dell’intrigo, nel cuore oscuro della storia. Ma proviamoci lo stesso.
L’anziano Rafael Velàsquez è un ricchissimo e rispettabile imprenditore, colto, moderato, devoto alla Madonna e alla santa memoria della moglie morta. Vive a Madrid in una villa favolosa (e superprotetta) assieme al figlio Juan, alla splendida compagna di quest’ultimo e alla nipotina Pilar, da lui adorata. Tutta la famiglia si concede abitudini dispendiose, i lussi e le raffinatezze che solo un grande patrimonio può consentire. Insomma, don Rafael, avvolto nel suo benessere economico, socialmente rispettato ed affettivamente gratificato, sembra condurre un’esistenza serena e del tutto decorosa.
Ma non è proprio tutto vero ciò che appare. Intanto, questo signore non è nato “bene”, non è stato sempre ricco, né, soprattutto, è stato sempre dotato di quell’aura di cultura e rispettabilità che ora pare contraddistinguerlo. Anzi, un tempo non gli appartenevano neppure quelle fattezze fisiche. E neanche quel nome. Perché in realtà lui si chiama Pedro de la Ardila, detto el Nazareno, ed è nato e cresciuto in un quartiere-ghetto di Envigado, all’estrema periferia di Medellìn, poverissimo e diseredato. E, naturalmente, è stato educato alla legge della sopravvivenza nella dura scuola della strada. Doppiamente dura e spietata negli anni della sua infanzia, quelli della cosiddetta Violencia (!), la guerra civile in cui l’esercito colombiano ha messo in atto una lotta senza esclusione di colpi contro i bandidos, rivalendosi spesso anche su contadini e braccianti inermi e del tutto ignari. Proprio tramite un episodio di questo tenore si è svolta per Pedro la prima lezione di vita, quando si è trovato casualmente ad assistere alla selvaggia esecuzione di un peone da parte di un militare. Presente alla scena, accanto a lui, un amico fraterno di qualche anno più giovane: nientemeno che quel Pablo Escobar che in seguito farà tanto parlare di sé come protagonista della cronaca del Paese.
Per entrambi questa esperienza resterà indelebile, un marchio che qualche anno dopo assumerà addirittura i connotati del destino. La necessità di non soccombere ai soprusi e agli attentati alla loro stessa incolumità fisica, l’ansia di rivalsa sociale, la voglia di vendetta, li avvieranno infatti ad abbandonare a loro a volta qualsiasi scrupolo o remora morale. Non c’è via di scampo: in quella realtà, l’unica cosa vera e concreta è la violenza, da dare o da subire. O vittima o persecutore. Oppure malvivente. E loro fanno la propria scelta.
Ancora adolescenti, compiono l’intero percorso della carriera criminale: dalle prime scorribande vandaliche, attraverso varie prove di forza, i due ragazzi arrivano ad imprese più ardue, specializzandosi infine nei furti d’auto. Sarà un incidente sul campo a interrompere per qualche tempo l’ascesa di Pedro verso un posto di rilievo nella gerarchia malavitosa. Ma quando uscirà da carcere, dove è rimasto assumendosi anche un parte delle colpe dell’amico, ad attenderlo troverà proprio lui, Pablo. Che nel frattempo non è rimasto con le mani in mano, ma ha preso contatti con i temibili fratelli Ochoa e si è inserito in modo attivo nel ramo del narcotraffico, ovvero produzione e commercio internazionale di cocaina. Anzi, avanzando con feroce determinazione, si è impadronito di una posizione preminente di potere e di controllo ed è divenuto addirittura il numero uno del cosiddetto “cartello di Medellìn”. Ed ora, riconoscente per il sacrificio cui si l’amico è generosamente prestato, è pronto ad offrirgli ruolo di delfino.
Ad arruolare Pedro de la Ardila nelle fila del traffico di droga è stato dunque il famoso Pablo Escobar. A lui Pedro per molto tempo è rimato legato da un rapporto strettissimo, non più soltanto di amicizia ma anche di collaborazione e complicità, rapporto caloroso ma non paritario: piuttosto una sorta di vassallaggio, dove accanto all’ammirazione per il capo si riscontra anche un certo timore reverenziale.
Poi in Colombia le cose sono cambiate. Con la morte di Escobar e lo smantellamento (più apparente che reale) del cartello che a lui faceva capo, per sfuggire alla cattura Pedro ha deciso di mutare aria. Si è trasferito a Madrid, si è fatto cambiare i connotati, ha assunto una nuova identità, ha imbastito relazioni diverse, intraprendendo attività rispettabili e inaugurando tante buone abitudini. Ma è tutta una copertura.
L’irreprensibile imprenditore, vedovo inconsolabile, padre sollecito e nonno affettuosissimo, in realtà non ha mai smesso di essere quello che è sempre stato: un assassino implacabile e narcotrafficante tra i più loschi. Anzi, nella sua palingenesi madrilena, el Nazareno ha finalmente potuto assumere quel ruolo primario e indiscusso di boss che in patria, vivo Escobar, gli era certamente precluso. Il suo giro d’affari si estende ora in tutto il mondo, tramite azioni illecite di cui lui regge le fila con logica ferrea e perentoria, demandando l’attuazione e il mantenimento delle regole ad un esercito di affiliati ed esecutori, tra i quali spiccano per crudeltà amici di vecchia data, oppure sgherri e mercenari di provata fedeltà (forse). Come Paco Revolver e Ben l’Israeliano, e soprattutto il leggendario Almamuerta, sinistra figura di sicario che ad un certo punto arriva dal Sudamerica per offrire il proprio aiuto a don Pedro.
Certamente più temuto che amato, quest’ultimo non tollera né insubordinazioni né tantomeno sgarri, dai suoi quanto dai rivali; ma per quanto riguarda gli affari, anche un boss potente e carismatico come lui deve fare i conti con la nuova realtà dei tempi e adattarsi alla necessità di stringere alleanze e accettare compromessi prima impensabili. Lo scopo: controllare e gestire al meglio le attività, e fronteggiare nel modo più efficace le insidie che da ogni parte – clan rivali o forze dell’ordine – possono intervenire a minacciarne la sicurezza. Alleato per eccellenza è la camorra napoletana, rappresentata nella fattispecie dalla famiglia “eretica” di Tano Ruotolo, che, latitante, ha delegato il comando alla figlia Alice, bella e feroce come è giusto aspettarsi da una femmina della mala. A conferma che i tempi sono davvero cambiati.
Ovviamente, dato il carattere internazionale degli affari del Nazareno, sulle tracce della sua organizzazione sono allertate le forze dell’ordine di mezzo mondo; ma a muoversi con particolare impegno sono ovviamente quelle spagnole e italiane. E qui un accanimento tutto speciale – per non dire sospetto – dimostrano Tania Sagrado, tenente della Guardia Civil in carriera, e Antonio Corso, capitano dei Carabinieri sotto copertura. Ciascuno ha le proprie personali ragioni per voler catturare i malviventi, anzi per volerli, più che dietro le sbarre, distesi su un tavolo di obitorio. E per ottenere il risultato sperato, impreziosito dal dolce profumo della vendetta, i due sanno mettere a tacere ogni scrupolo, agendo con la medesima allucinante crudezza dei criminali a cui danno la caccia. Legalità è per loro una parola ignota, e quanto alla sete di giustizia, diciamo che trovano modi assai creativi per placarla.
E in mezzo a tutto questo orrido bestiario umano, la nota dissonante: Carlos Hernàndez, l’ingenuo, innocente e ignaro bravo ragazzo che viene preso nel mezzo, e che, suo malgrado…
Ma a questo punto, basta così, non si può dire di più.
Come si è detto, Padre Nostro è una lettura avvincente. La narrazione è in terza persona, fabula ed intreccio non coincidono, soprattutto perché di tanto in tanto compaiono dei flash-back che aggiornano il lettore su eventi che in passato hanno movimentato (e spesso tormentato) la vita, anche privata, dei vari protagonisti, marchiandoli fino al punto di farli diventare ciò che ora sono.
Neanche il racconto di fatti attinenti il presente, ovvero l’azione principale, è del tutto lineare: spostamenti di location e qualche salto temporale intervengono a incatenare la nostra attenzione, pronti a scattare come un ingranaggio perfettamente oliato. Pur nella sua complessità, infatti, la trama si svolge chiara e scorrevole nei suoi vividi colori. Gli avvenimenti si susseguono a ritmo serrato: sparatorie, inseguimenti, situazioni di intensa drammaticità, episodi ad alta tensione emotiva si inseguono e si intrecciano, alternandosi ai colpi di scena, alle sorprese, alle attese da brivido. I dialoghi scorrono incalzanti, secchi, estremamente realistici anche nella scelta lessicale, certamente non adatta a signorine educate al bon ton di Donna Letizia. Le descrizioni sono rapide, efficacissime, spesso addirittura spettacolari. In questo modo la storia si snoda e fluisce come un magma incandescente, senza che il lettore riesca a tirare il fiato.
In effetti, c’è molto di cinematografico in Padre Nostro, come cinematografico è stato, per espressa dichiarazione degli autori, il modo di procedere nella scrittura a sei mani, in cui le varie stesure possono assimilarsi all’elaborazione di una sceneggiatura. E, visto l’esito finale, non mi stupirei di sentire che a breve uscirà un adattamento per il grande schermo. Come del resto è accaduto per molti libri di Massimo Carlotto, fondatore del Collettivo Sabot e “maestro” dei giovani autori che ne fanno parte.
Quanto ai contenuti il percorso narrativo vuole dichiaratamente riprodurre la ripartizione dantesca dei tre regni dell’oltretomba, invertendo però la direzione del cammino e risolvendosi in una autentica discesa agli inferi, dall’iniziale situazione di (relativa) calma e stabilità ad una conclusione di totale sfacelo.
Il finale è spiazzante sotto tutti i punti di vista, per la sua capacità di distruggere qualsiasi orizzonte d’attesa del lettore. Ma per certi aspetti la vicenda non è neppure conclusa, perché appunto nel totale rovesciamento delle aspettative con cui il libro finisce, vengono a profilarsi nuove prospettive, si aprono orizzonti diversi, e per qualche personaggio questi preludono a ulteriori scelte di vita, preannunciano altre vicende, altre avventure… (forse in vista di un sequel?…).
Certo l’evolversi degli ultimi eventi, dove nella pluralità dei toni e delle sfumature non mancano dei risvolti commoventi, è così beffardo e assoluto nella sua assenza di speranza, da lasciare al lettore il retrogusto amaro che deriva soprattutto dalla consapevolezza che nulla è autentico, ma tutto potrebbe esserlo. Se Padre Nostro, infatti, non è proprio un’opera per stomaci delicati, a sconvolgere non dovrebbe essere tanto la crudezza del linguaggio o la violenza di alcune scene, quanto proprio la considerazione che la materia raccontata rappresenta la feroce realtà del mondo criminale, così come effettivamente è. Chiunque abbia qualche nozione sull’argomento sa bene che tutto potrebbe essere vero. Certamente veri sono la situazione generale, lo sfondo socio-economico, il quadro panoramico del narcotraffico e delle sue molteplici implicazioni, così come emergono con straordinaria icasticità dalle pagine del libro.
Persino la vita privata dei personaggi, apparentemente troppo intensa e drammatica, punteggiata di episodi uno più mirabolante dell’altro, insomma una vita così sopra le righe da apparire incredibile, per quanto interamente inventata, non è poi così lontana dall’esistenza reale di molti esponenti di quell’ universo marcio e proteiforme che è la delinquenza organizzata. Un mondo a parte, sì, ma in stretta connessione con la società in cui tutti noi persone “normali” viviamo quotidianamente.
Padre Nostro, peraltro, ci fornisce una visione totalmente negativa anche di chi a vario titolo si muove sull’altro fronte: istituzioni, enti, singoli individui, personaggi d’ordine e di potere, laici e persino ecclesiastici. E qui basta davvero la semplice lettura di un quotidiano per veder cadere l’eventuale impressione di pessimismo, e rendersi conto, piuttosto, di quanto realistica sia la descrizione proposta dagli autori.
In effetti Padre Nostro risponde agli intenti e ai criteri operativi del Collettivo Sabot, che vede il romanzo – non giallo, ma noir, e specificamente noir mediterraneo, secondo la definizione proposta da Massimo Carlotto nella Prefazione – come testimonianza di verità e denuncia sociale, ovvero quale esito ultimo di una serie di operazioni che partono da un minuzioso lavoro preliminare di indagine e raccolta dati, contatti e confronti. In questo caso, lo spunto di partenza è stata la volontà di ripercorrere la storia dell’alleanza tra narcotrafficanti e camorra, ovvero raccontare sinteticamente, attraverso le vicende romanzesche del Nazareno e dei suoi complici, il cammino evolutivo compiuto dalla criminalità, passando dal traffico “tradizionale” (quello dei cartelli colombiani) alla nuova organizzazione, più complessa e, se possibile, ancora più pericolosa, sia per l’estensione sia per la stabilizzazione di una rete estremamente evoluta di “collaborazioni” internazionali.
Se poi il racconto è risultato davvero molto coinvolgente, questo è senz’altro un merito ulteriore che deve essere riconosciuto agli autori. In altre parole, ciò significa che con Padre Nostro Auriemma, Cosmo e Pulixi, partendo da un’inchiesta condotta nel modo più rigoroso e professionale, hanno saputo produrre un libro-verità appassionante, dotato di tutto il valore aggiunto del vero romanzo d’avventura e d’azione.