Questa non vuole essere una vera e propria recensione, ma una riflessione sui luoghi di Andrea Molesini, o meglio, dei suoi libri (che, almeno in parte, è la stessa cosa) e sul modo tipico dello scrittore di rappresentarli.
I romanzi di Molesini sono tutti ambientati in Veneto, in spazi e luoghi non immaginari, ma reali, realmente esistenti. Anche se lo sviluppo della vicenda può talvolta portare i protagonisti a spostarsi in altre regioni e paesi, ma il punto di partenza (o di arrivo) è poi sempre qui, in località vicine a noi e sicuramente presenti nell’esperienza biografica e, soprattutto, nel mondo culturale ed affettivo dello scrittore, veneziano di Castello.
Il quale, parlando di sé, dice:
Sono nato e cresciuto in un luogo d’acqua. L’acqua verde buia dei canali, che sa di cicoria bollita, di detersivo e di fogna. L’acqua della laguna aperta, che in estate prende il colore dell’erica delle barene e sa di pesce e di uccelli lenti come le darsene coi pescherecci. Le acque del Sile e del Brenta che per un poco si mantengono dolci prima di cedere alla salinità che il mare impone alla laguna. Acque differenti, le une ostili alle altre, che si mescolano e contendono lo spazio secondo tempi e modi che sfidano le leggi della fisica per sconfinare nel sortilegio.
E sopra l’acqua la pietra. La pietra di una città fitta di case e di osterie, di comignoli e di gatti, di uccelli e di vento e di nebbia e di scorci di bellezza toccante e di raffiche maleolenti. C’è anche la pietra delle isole, ridotte dall’abbandono a tane di falchi e gabbiani, di serpi, di contrabbandieri e di ratti più lunghi di un avambraccio.
E poi ancora:
Sono nato e cresciuto in un luogo scolpito nella lentezza, fatto di spazi ridottissimi, calli strette, case che si toccano, turisti che intasano i sottoporteghi, barche che nei canali a stento sfilano le une accanto alle altre senza toccarsi. Scolpito nella lentezza, dicevo, perché fuori, sulle paludi ferme e immense che circondano la pietra abitata c’è un altrove senza echi percorso da uomini lenti che vogano alla valesana. C’era, dovrei dire, perché oggi vedo più barchini rombanti che altro. E questa è una catastrofe, perché Venezia è una città di suoni, non di rumori. Si sentono i gatti miagolare e si sentono i tacchi a spillo sui masegni. Il rumore dei motori è relegato ai canali, una maglia di vie ancora abbastanza silenziose e percorse dalla lentezza (le barche, anche quelle a motore, grazie a dio non hanno i freni).(Qualcosa di me, Conferenza tenuta all’Università di Pavia il 24 marzo 1999)
Queste atmosfere, queste suggestioni, i suoni, le voci, persino gli odori della città e soprattutto della laguna e delle sue isole – luoghi incantati e magici per definizione – si ritrovano intatte nei suoi libri e ne costituiscono la cifra stilistica dominante, anzi direi, il pregio narrativo più evidente e significativo.
Va detto però che l’abilità suggestiva di Molesini, la capacità di trasmettere l’anima del luogo, spesso accompagna ad una sensazione di mistero e di attesa, che si traduce nella percezione di un’inquietudine sottile ed inspiegabile, si estende alle pagine dove l’ambientazione ci porta in Terraferma addirittura nell’entroterra veneto come accade per Non tutti i bastardi sono di Vienna, il primo dei romanzi, premio Campiello 2011.
Qui siamo a Refrontolo, sulle colline trevigiane, in riva al Piave, in terra di prosecco e marzemino. L’ambiente naturale è qui raccontato e dipinto in tutta la gamma dei suoi colori e profumi, ma in questo romanzo, come del resto accadrà in
quelli successivi (soprattutto Presagio), è rilevante anche la location degli interni, che privilegia edifici tuttora esistenti e in qualche modo legati alla famiglia materna dello scrittore. Anzi, proprio la commistione di storia privata e Storia ufficiale è la nota dominante di quest’opera e forse anche una delle ragioni più forti per il suo apprezzamento.
Villa Spada (oggi villa Battaglia –Spada), dove si colloca la vicenda narrata, è una costruzione settecentesca, oggi fatiscente e, da anni, bisognosa di un restauro sempre “urgente”, per il quale, però, mancano i fondi. Proprio il successo del libro, però, ha richiamato l’attenzione di tutto il mondo letterario e culturale, oltre che dei semplici lettori, tanto che le istituzioni locali e vari comitati promozionali gestiti da privati sembrano essersi attivati per il reperimento dei finanziamenti necessari, ragion per cui – forse – è possibile sperare che non tutto sia perduto. L’edificio, denominato Villa Antonietta, fu requisito dagli Austriaci e divenne Quartier Generale del Comando Austro-Ungarico. Maria Spada, prozia dello scrittore e personaggio protagonista del romanzo, così annota nel suo diario:
Verso le sei di sera entrò in villa il primo Comando Germanico, una ventina di ufficiali e 150 soldati […] Comandante il Capitano Korpium della Breslavia mi intimò di scacciarmi dal castello (villa Spada n.d.r.), se non alloggiavo tutti. Gli invasori hanno scassinato ogni cosa, saccheggiato e sporcato tutto…” ( 9 novembre 1917).
E più avanti:
Venerdì 30 agosto 1918:
Sotto un terribile uragano, alle ore 23, giunse ieri in Villa Antonietta il comando della 12 divisione di cavalleria appiedata comandata dal principe Max Eugenio Furstenberg, parente dell’imperatore d’Austria. Stamane alle 11 il capo di stato maggiore colonnello Karapancsa venne a presentarsi. Il casato è turco e si traduce Mano Nera. Parla italiano, è cognato del conte Nicolò Papadopoli. La villa fu messa in ordine e sulla riva fu piantato il telegrafo Marconi.
(Questa a destra è la fotografia scattata nella cucina della Villa. E’ presente oltre al Comando Austro-Ungarico anche un prigioniero italiano).
Più tardi, il 30 ottobre 1918, questo è l’ultimo passo che compare nel diario di Maria:
Stamane sono passati gli arditi. Dopo 94 ore di granate continue sono salva. Una granata penetrando dalla finestra della rimessa avea scavalcato 4 cassette di granate austriache e si era fermata inesplosa, molte altre sono cadute nelle vicinanze. Ore 2 pomeridiane entrano in Villa Antonietta i bersaglieri. Espongo alla finestra il tricolore italiano!
La Grande Guerra era finita.
Il secondo romanzo di Molesini, La primavera del lupo – uscito nel 2013, e anch’esso premiatissimo – ci porta ai tempi della Seconda Guerra Mondiale e racconta, filtrandola attraverso lo sguardo ed il linguaggio del piccolo Pietro, una storia di paura, resistenza e fuga: avvincente e suggestiva, ma per la verità, con qualche risvolto un po’ troppo oscuro.
Il tutto prende le mosse dall’isola di San Francesco del Deserto, situata tra Sant’Erasmo e Burano, che ospita tuttora il convento fondato originariamente da san Francesco, da cui prende il nome. Il luogo, frequentato sin dall’età romana, come testimoniano alcuni reperti archeologici, in realtà era già chiamato Isola delle Due Vigne. Il Poverello d’Assisi vi approdò nel 1220, di ritorno dall’Oriente – e dalla Quinta Crociata – dove si era recato a predicare il Vangelo al Sultano d’Egitto Malek-el-Kamel, suscitando sentimenti di amicizia e di ammirazione. Il Santo scelse l’isola per fondarvi un ricovero dove fosse possibile pregare e meditare in pace, lontani dalla mondanità e dal rumore del mondo. Dopo la sua morte, il patrizio veneziano Jacopo Michiel, che ne era proprietario, nel marzo del 1233 donò l’isola ai Frati Minori, perché vi continuassero la loro vita monastica. Nel XV secolo, però, le condizioni ambientali divenute ormai inospitali, portarono all’abbandono della zona, che fu successivamente adibita a polveriera dagli Austriaci, sino a che nel 1858 il terreno venne donato alla Diocesi di Venezia, la quale consentì ai frati di rifondarvi il monastero, tuttora esistente ed attivo.
Proprio il convento francescano è al centro della vicenda nei primi capitoli de La primavera del lupo, dove si narra della formazione di un primo nucleo di resistenza antifascista ed antitedesca, mentre in seguito i protagonisti, per sfuggire alla cattura, sono portati ad errare con foga parossistica e confusa tra il mare e diverse lande variamente desolate, fino ad approdare in Alto Adige, dove tutto si concluderà tragicamente in un episodio dall’intensità torbida e quasi morbosa. Ma è naturalmente nella prima parte del libro, dove i fatti narrati avvengono appunto in laguna, che più chiaramente si avverte la grande abilità dello scrittore nel rendere il fascino dei luoghi, nel rappresentare ambienti e atmosfere con un tocco avvolgente, catturando non semplicemente l’attenzione del lettore, ma tutta la sua capacità percettiva, come se fosse immerso quasi in modo fisico e sensibile in quella realtà.
Infine, Presagio, uscito nel 2014. Questo, a mio parere, è il meno riuscito dei testi di Molesini, quello in cui si concentrano tante, troppe tematiche, senza che vi sia un adeguato sviluppo concettuale né una soddisfacente articolazione dei fatti. E neppure, purtroppo, il necessario approfondimento psicologico dei caratteri, nonostante alcuni tratti interessanti, soprattutto nel protagonista Nicolò Spada, ancora una volta un personaggio reale, ovvero il nonno materno dello scrittore. Insomma, elementi e spunti narrativi potenzialmente sufficienti per un romanzo di ampio respiro, concentrati a forza e, per così dire, sacrificati nei limiti di un racconto lungo. Quindi, sostanzialmente irrisolti, nonostabnte l’indubbio fascino di molti “momenti” particolari.
Ma per quanto riguarda la resa dei luoghi, anche qui Molesini non si tradisce: l’abilità descrittiva già emersa nei romanzi precedenti c’è ancora tutta e si impone al lettore con grande forza, benché forse un po’ offuscata dalla consapevolezza di alcuni illustri precedenti (come non citare l’inarrivabile La morte a Venezia di Mann e persino, benché a tutt’altro livello, Il Fuoco di D’annunzio?) e della relativa facilità di alcune tematiche e ambientazioni a forte impatto emozionale. Tanto che, semmai, la difficoltà è quella di evitare i toni stucchevoli della cartolina.
Perché, sì, questa è una storia di amore e morte in laguna, e per di per di più collocata nel 1914, all’annuncio di quella guerra che, se al momento non riguarda ancora l’Italia, ha già coinvolto altri Stati europei e si profila all’orizzonte come uno spettro che ben presto trascinerà anche il nostro Paese nella carneficina. C’è attesa e paura, incredulità e angoscia nello splendido Hotel Excelsior del Lido, monumento al lusso in versione neobizantina di proprietà di Nicolò Spada, dove tanta bella gente, nobile, ricca, viziata vive gli ultimi bagliori della Belle Époque e affoga nello champagne il terrore della catastrofe. E naturalmente, sentimenti ancora più bui si agitano nell’animo dei personaggi popolari, che si interrogano sul futuro e sul destino dei propri figli senza nemmeno il conforto di un cospicuo patrimonio come salvacondotto.
Presagio, però non racconta soltanto questo, né quello del Lido è l’unico paesaggio lagunare che compare nel libro. Ampia parte della vicenda si svolge infatti a San Servolo, l’isola dei pazzi, destinata a manicomio cittadino sin dal 1725, con il ricovero del primo ammalato, sotto la direzione dei religiosi Ospitalieri di S. Giovanni di Dio detti Fatebenefratelli. Questa destinazione è proseguita nei secoli fino al 1978 , quando la Legge 180, più nota come legge Basaglia, ha portato alla chiusura dei manicomi in Italia. Il patrimonio storico documentario di San Servolo non è però andato perduto e, nella sua sistemazione museale ed archivistica, costituisce oggi un insieme di materiale di grandissimo valore, fonte di memoria storica per l’isola, per la città e per la storia della medicina psichiatrica dagli albori fino ai giorni nostri.
Nel libro di Molesini San Servolo, con til paesaggio circostante e tutta l’atmosfera che ne deriva, è descritto con la consueta maestria. Appare come un luogo sinistro, inquietante ed opprimente, in ovvia contrapposizione all’atmosfera del Lido, ancora splendente di lusso e di glamour, nonostante la precarietà della situazione internazionale.
Senso di oppressione ed inquietudine non derivano però dalla descrizione delle condizioni dei degenti, che sarebbe stato ovvio ed altrattanto banale, quanto dalla materia narrativa in se stessa, perché qui è ospitato Viktor, un personaggio-chiave della vicenda e depositario del significato complessivo dell’opera. Nel silenzio e nella reclusione dell’isola, egli consuma gli ultimi mesi della propria vita preda dolore e del rimorso, e soprattutto di una disperata ricerca della Verità: un’ossessione che, risolvendosi, lo porterà alla morte. E finalmente, forse, alla pace.
Daniela Palamidese