Cos’è veramente la Giustizia? E cosa significa fare giustizia? Un giudice deve seguire la Legge, e solo la Legge, sempre e comunque? Oppure esiste un margine di discrezionalità e di libertà d’azione? Fino a che punto?
Di questo si parla in due recenti romanzi, Per legge superiore (2011) e Morte di un uomo felice (2014), pubblicati da Giorgio Fontana, classe 1981, che nonostante la giovane età ha conseguito numerosi riconoscimenti e con il secondo di essi si è aggiudicato nientemeno che il prestigioso premio Campiello.
Come osserva lo stesso autore, pur essendo completamente indipendenti l’uno dall’altro, essi costituiscono un dittico: le tematiche trattate sono fondamentalmente le stesse, lo sfondo, Milano, è il medesimo, e infine i personaggi principali trascorrono da un libro all’altro, seppure con ruolo e rilievo diverso. Quello che cambia è invece il periodo storico dell’ambientazione, benché in entrambi i casi si tratti di momenti molto problematici della storia italiana, momenti in cui si è delineata con drammatica evidenza la crisi delle istituzioni, dei valori sociali e degli stessi fondamenti della convivenza civile.
L’ordine di pubblicazione non rispetta, però, la cronologia delle vicende: Per legge superiore si colloca più o meno ai giorni nostri, mentre Morte di un uomo felice ci riporta indietro di un trentennio, ai tragici “anni di piombo”.
I protagonisti sono due magistrati, rispettivamente Roberto Doni e Giacomo Colnaghi, compagni di studi, colleghi, amici. Due uomini diversissimi per carattere, collocazione sociale, formazione culturale ed ideologica – proletario e cattolico l’uno, borghese ed ateo l’altro – ma accomunati dall’identico amore per la giustizia, dall’impegno impiegato nell’esercizio della professione, dalla sostanziale onestà che ne caratterizza ogni azione ed è per loro il valore fondamentale nella concezione stessa della vita. Oltre ad una sottile vena di malinconia che li caratterizza entrambi ed emerge con maggiore insistenza proprio nei momenti esistenziali più significativi. Gli anni li porteranno ad allontanarsi – non a perdersi – e intraprendere strade parzialmente diverse; ma soprattutto diverso sarà, per volontà di un destino manovrato dalla mano violenta della Storia (?) l’esito del rispettivo impegno professionale: il più eroico Colnaghi, non ancora quarantenne, finirà morto ammazzato, il più prudente Doni, avviato ad una brillante carriera, proseguirà una vita ricca di soddisfazioni e certezze gratificanti. Fino a che…
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Per legge superiore vede come protagonista un Roberto Doni, ormai sessantenne, sostituto procuratore generale nel capoluogo lombardo. Giunto all’apice della carriera, gli manca soltanto l’ultima promozione prima del trasferimento definitivo in una tranquilla città di provincia, in attesa della pensione. Corretto ed irreprensibile, egli ha sempre esercitato la professione con impegno e serietà, senza cedimenti ai giochi di potere né compromissioni con relazioni o amicizie imbarazzanti. Per questo, forte della propria rettitudine, ha sempre sentito di trovarsi nella parte del giusto né, sorretto dalla ineccepibile applicazione della legge, ha mai avuto dubbi sul fatto che quella – e solo quella – fosse l’unica giustizia possibile.
Ma ora queste certezze i mostrano tutta la loro fragilità, e quello che nella sua vita sembrava essere un percorso ormai segnato e privo di sorprese, rassicurante nella sua ovvietà, viene invece improvvisamente sconvolto da un fatto imprevisto e del tutto inconsueto. In conflitto ci sono, da un lato, la sua coscienza di uomo e di magistrato, che gli impone di non contribuire alla condanna di un innocente, dall’altro la consapevolezza che legge e pratica del diritto impongono regole e procedure indiscutibili, destinate tuttavia a rivelarsi inadeguate a garantire una vera giustizia.
Accanto a ciò, il pur legittimo desiderio di non buttare a mare decenni di carriera proprio quando gli sembra di essere arrivato ad un passo dal coronamento finale. E con la carriera, il benessere economico, la serenità familiare, il tranquillo godimento di uno status onestamente perseguito nella dedizione alla professione.
Ma vediamo i fatti. Siamo alla vigilia del processo d’appello di Khaled Ghezal,un giovane muratore tunisino accusato di avere partecipato ad una rapina ai danni di una coppia della buona borghesia milanese. Nella colluttazione seguita all’assalto un colpo era partito, forse accidentalmente, e aveva centrato la ragazza, condannandola per sempre alla sedia a rotelle. Tutto sembra portare alla colpevolezza del tunisino: la ragazza dice di averlo riconosciuto, il fidanzato conferma, Khaled stesso non smentisce…
In qualità di sostituto procuratore Roberto Doni, conclusa l’indagine procedurale, si appresta a chiedere la condanna, quando viene contattato da Elena Vicenzi, giornalista free lance e donna di carattere: lavori saltuari, soldi pochi, ideali tanti. È lei che costringe doni a fermarsi, a rimettere tutto in discussione.
Il suo interesse per la vicenda di Khaled non è soltanto professionale, e neppure dettato da semplice amicizia. In realtà la ragazza è animata da un senso profondo e assoluto della verità e della giustizia, che non può prescindere –ovviamente- dal concetto di equità ed eguaglianza. Oltre le apparenze, oltre i luoghi comuni, oltre le più diffuse aspettative. Addirittura oltre le prescrizioni formali della legge scritta nei libri e applicata nei tribunali. Lei sa la verità, perché conosce Khaled e le persone che frequenta, e riguardo la vicenda di cui è accusato è in grado di fornire particolari inediti, ignoti agli inquirenti, che potrebbero dimostrarne l’innocenza, se solo qualcuno osasse uscire dalla clandestinità e parlasse. Compreso lo stesso Khaled, il quale ha rinunciato a difendersi soltanto per non compromettere l’amico Mohamed, il quale era con lui quella sera e potrebbe scagionarlo, ma , in quanto clandestino, vive nel terrore di essere rimpatriato e per questo non intende comparire in tribunale.
A Roberto Doni Elena si è rivolta perché ha capito che di lui – solo di lui!- si può fidare. Sfidando tutti i divieti e le convenzioni, vincendone la diffidenza e la riluttanza, lo convince prima ad ascoltarla, poi addirittura a seguirla nell’ambiente dove vive il giovane tunisino ed incontrare i potenziali testimoni. Per il giudice non è facile uscire dal bozzolo accogliente della Milano dove trascorre elegantemente la propria esistenza la gente bene. Immergersi in quel brulicame di vite diverse che è il melting pot di via Padova, percorrere fino in fondo quella strada, sarà la scoperta traumatica di un mondo alieno, una città completamente sconosciuta, nascosta ed invisibile oltre i confini della sua Milano.
All’inizio è come la discesa all’inferno, un incubo minaccioso e inquietante, ma a poco a poco, parallelamente all’incrinarsi delle certezze che si credevano inattaccabili, Roberto Doni comincia a conoscervi e riconoscere i tratti di un’umanità per lui nuova ma non necessariamente peggiore, benché segnata nel viso e nell’anima dalle cicatrici volute da un destino spesso beffardo. A poco a poco i riferimenti diventano sempre più fragili, tutto comincia ad apparire in una luce diversa. L’assillo del dubbio si fa sempre più pressante e tormentoso, mentre Elena che lo accompagna in questo suo viaggio agli inferi è lì, a ricordargli che la verità c’è, è portata di mano, e con la verità anche la possibilità, anzi l’obbligo, di applicare una vera giustizia. Ma non è la giustizia come l’ha sempre intesa lui, fatta di rispetto delle norme e obbedienza alle procedure formali. Al contrario, le regole dovrebbero essere tutte sovvertite, e per di più il suo ruolo istituzionale non è quello della difesa. Sarebbe il disastro della carriera, l’esilio sociale,forse persino la disgregazione familiare. Nessuno si aspetta questo da lui. Ma c’è sempre quel tarlo che non può essere messo a tacere…Fiat iustitia.Ma quale?
Doni è una brava persona, un buon giudice, ma non è certamente un eroe. Quel dubbio che si insinua sempre più insistente e arriva a superare i limiti professionali per toccare quelli dell’etica, si trasforma in una vera e propria crisi esistenziale, dove in discussione non è soltanto ruolo civile del magistrato. Si accorge allora di essere un uomo solo, sempre più isolato e incompreso. Nessuno può aiutarlo, né accompagnarlo in questa strada impervia: la moglie bella ed intelligente non capisce, la figlia è lontana fisicamente ed emotivamente, e anche il suo vecchio maestro, il procuratore Cattaneo, all’atto pratico, non sa come essergli utile. Persino lui, che ai suoi tempi ha insegnato a tutti l’esistenza di una “legge superiore”… La scelta può essere solo sua, quale che sia. E si tratta di mettere in gioco un’intera vita.
È in questi momenti di inquietudine che ritorna insistente il ricordo di Giacomo Colnaghi, l’amico e collega caduto trent’anni prima in un agguato terroristico mentre era nell’esercizio delle sue funzioni.
Colnaghi: il migliore. Solo lui può indicare allo spaesato Roberto Doni una traccia da seguire. Perché Colnaghi, lui sì, è stato un eroe. Ma un eroe con qualcosa di speciale, che lo ha reso comunque umano e reale: è stato soprattutto un giudice onesto, che per tutta la vita si è interrogato sul senso della giustizia, quella vera, e alla fine è morto mentre, ancora una volta, come sempre, cercava solo di far bene il proprio lavoro. In qualsiasi situazione, anche le più impervie. E magari essere eroi vuol dire proprio questo.
Giacome Colnaghi coraggioso lo era davvero, e per questo coraggio è stato l’ennesima vittima di quegli anni di piombo e di quelle ideologie della violenza che rifiutava, ma cercava di indagare a fondo per riuscire a coglierne la motivazione, l’origine, il punto di rottura con il consorzio umano individuato come nemico. Nella speranza, forse vana, ma per lui imprescindibile, di poterne capire il senso ed arrivare ad una giustizia più giusta. Mantenendosi sempre nell’ambito della visione cristiana, laddove il collega Doni si muoveva su posizioni interamente laiche. Ma questo in fondo non era a – non è – molto rilevante. La differenza vera era che per Giacomo la risposta a questi interrogativi coincideva con l’essenza stessa della sua professione, mentre per Roberto si trattava, all’epoca, di pure elucubrazioni accademiche, affrontate con un certo distacco, e solo su invito dell’amico.
Ora, a distanza di decenni, in un momento storico diverso e in diverse condizioni professionali ed esistenziali, Doni si ritrova sulle orme di Colnaghi. Adesso anche lui sente sulla propria pelle la questione bruciante: capire cosa sono legge e giustizia, nel rispettivo rapporto con la morale. Adesso c’è una decisione che incombe, una carta da giocare. O da scartare…
Naturalmente, non svelerò qui l’esito della sua riflessione. E non so neanche se i giudici veri si potrebbero ritrovare nei dubbi di Doni e Colnaghi, se ne potrebbero condividere le motivazioni e l’impostazione stessa delle problematiche, così come si leggono in Per legge superiore (e Morte di un uomo felice). Ma del resto non è importantissimo.
L’autore di questo bel libro (e dell’altro, complementare) non ha voluto scrivere un saggio sulla giustizia, né un trattato di filosofia morale, benché, come lui stesso dichiara (vedi l’intervista su questo blog) e come è abbastanza evidente in diversi passaggi, l’interesse per questi argomenti probabilmente affondi le radici proprio nei suoi studi filosofici. Ha inteso invece scrivere un romanzo, inventare una materia narrativa da comporre in storie che potessero essere raccontate.
Storie interessanti e coinvolgenti, portatrici di idee su cui il lettore, volendo, abbia modo di soffermarsi a pensare forse qualche personaggio avrebbe potuto essere più articolato e ricevere un maggiore approfondimento psicologico: sto pensando a Mohamed ed anche alla stessa Elena, che nella vicenda è una figura-chiave. D’altra parte, questo aspetto, che a mio parere è senz’altro un limite del libro, non fa molto danno, anzi finisce per risultare quasi funzionale, nel senso che non sussistono elementi di dispersione, la narrazione procede compatta e per così dire “aristotelica”: tutto ruota intorno al protagonista unico e al suo dilemma interiore dandovi il massimo risalto possibile.
A questo medesimo effetto concorre anche la struttura del testo, lineare e consequenziale, ovvero basata sulla coincidenza di fabula e intreccio, tranne che per le ricorrenti fughe all’indietro del protagonista. Queste comunque non hanno alterano l’andamento del racconto né hanno l’ampiezza o le caratteristiche del vero e proprio flash back, perché in esse non c’è azione ma soltanto, di volta in volta, il lampo di un pensiero o l’indugio dell’annotazione memorialistica. La scrittura si mantiene asciutta, precisa, pacata, molto attenta alla resa del dialogo, con risultati di grande scorrevolezza e leggibilità.
C’è una scelta espressiva consapevole, perseguita tramite un continuo processo di affinamento stilistico rispetto alle opere precedenti di Fontana, a tutto vantaggio dei contenuti concettuali che si susseguono pagina dopo pagina. Come si legge nel risvolto di copertina: Giorgio Fontana ha scritto un libro che si colloca al confine tra la riflessione etica ed esistenziale, la denuncia civile e l’intreccio giudiziario. L’ha fatto bene. E tanto basta.
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Fiat iustitia ne pereat mundus, Sia fatta giustizia perché non perisca il mondo.
Così recita un’iscrizione ben visibile sulla facciata marmorea del Palazzo di Giustizia di Milano.
Parole tanto universalmente condivisibili da apparire quasi ovvie, specie se intese, come deve essere, quale monito e proposito programmatico di chi in quel Palazzo entra per dare esecuzione ad una funzione professionale che non è un semplice lavoro, ma un vero e proprio ruolo civile. Esse però derivano da un intervento correttivo, dovuto al filosofo Hegel, della formulazione originale Fiat iustitia et pereat mundus, Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo, probabilmente risalente nientemeno che al “tirannicida” Cassio Longino, uno degli assassini di Giulio Cesare, assunta poi come motto personale da Ferdinando d’Asburgo.
Chiosata nel Settecento da Immanuel Kant in questo modo:
“Regni la giustizia, dovessero anche per essa perire tutti assieme gli scellerati che esistono nel mondo” è un principio di diritto coraggioso, che taglia le vie tortuose tracciate dall’inganno e dalla violenza.
Netto, reciso, inappellabile. Tanto che, in seguito, questa versione risulterà troppo cruda ed inquietante, troppo evocativa di tempi bui e metodi brutali, quando giustizia poteva essere sinonimo di vendetta implacabile. Nella versione hegeliana l’asserzione diventa invece rassicurante, protettiva, idealmente appagante. Anche perché, espressa in forma assoluta, esclude incertezze interpretative ed implica l’inequivocabilità del concetto di giustizia, invitando alla fiducia nella legge e nelle istituzioni preposte alla sua tutela.
Come se la corretta applicazione del dettato normativo costituisse di per sé la garanzia dell’equità in tutto e per tutti.
In realtà non è così. Per quanto possa apparire paradossale, in questo campo di assoluto c’è poco, e non si tratta dell’ipotesi, sempre possibile, dell’errore umano. Tantomeno di un esercizio consapevolmente scorretto e corrotto dell’attività giudiziaria. Questi sono fenomeni purtroppo relativamente frequenti, ma al di fuori di qualsiasi schematizzazione. No. Il discorso di riferisce alla pratica processuale, dove questioni interpretative, aporie e casi di coscienza possono presentarsi quotidianamente anche al magistrato più irreprensibile. Anzi, soprattutto a lui, e non per caso.
Del resto, tanto per restare in clima di citazioni, già la saggezza giudiziaria dei latini aveva reso ovvio, al punto tale da considerarlo proverbiale, il concetto racchiuso l’espressione Summum ius, summa iniuria, Somma giustizia, somma ingiustizia (Cicerone, De officiis, I, 10, 33). Intendendo con ciò che l’applicazione del diritto, qualora avvenga in modo acritico, prescindendo dalla valutazione delle circostanze, dalle condizioni e dalle finalità di un reato, rischia di uccidere lo spirito per cui il diritto stesso è stato costituito ed istituzionalizzato. Non più vera giustizia, allora, ma solo rigido formalismo, peggio che inefficace: iniquo e potenziale strumento di ingiustizia.
Perfetto: è la ragione per cui sostengo:
Il giudice sta alla Legge, come l’avvocato sta alla Giustizia.
( Avv. Giancarlo Ancora )