GIUSEPPE PONTIGGIA, Nati due volte, Mondadori, Milano 2000
(Dal libro è stato liberamente tratto il film Le chiavi di casa, per la regia di Gianni Amelio)
Una premessa
È stata una piacevole sorpresa il bel libro di Giuseppe Pontiggia Nati due volte, che racconta, sì, di un rapporto padre-figlio dove quest’ultimo è affetto da una grave disabilità, ma lo fa con lucidità ed intelligenza, senza indulgere al pietismo e alla lacrima, e senza neppure affidarsi ad improbabili effetti consolatori o a ricattatorie richieste di solidarietà. Piuttosto, accanto all’evidente intento di denuncia e talvolta di polemica, sa unire al racconto di una materia indubbiamente difficile e dolorosa, anche la nota ironica e grottesca, nonché la dignità di un’accettazione non rassegnata ma “militante”, vissuta giorno per aiutare il figlio non a “diventare normale, ma soltanto se stesso”.
E poi, soprattutto, questo libro non è soltanto la storia raccontata, è molto altro e molto di più: è un’occasione di riflessione, sulla vita, la fede, l’impegno, la responsabilità. È, in qualche modo, una lezione sulla condizione umana, lezione priva però di qualsiasi dogmatismo e piuttosto intesa come uno stimolo per la ricerca personale del lettore, un percorso individuale a partire dalle considerazioni del protagonista, il padre-narratore, cui appartiene il punto di vista unico, il criterio di giudizio e di selezione delle informazioni.
La vicenda
Quando nasce Paolo Frigerio, è subito evidente che non si tratta di un bambino esattamente come tutti gli altri. E la diagnosi, a breve, si rivelerà agghiacciante: tetraplegia spastica distonica, provocata probabilmente da un parto malamente gestito che ha causato gravi danni neurologici. Incredulità, sgomento, rabbia, disperazione sono i sentimenti che si alternano nella mente e nel cuore (nella pancia, oserei dire) dei genitori. Ma anche istinto di fuga e di rifiuto, e soprattutto senso di colpa: in lei, Franca, perché sua è stata la volontà di affidarsi a medici poco competenti; in lui, il professore, perché in quel momento sta vivendo una relazione clandestina con una vecchia amicizia ritrovata dopo anni. Pur convinto della propria colpevolezza, per la quale sente confusamente di essere stato punito, scontento, inquieto, smarrito, egli in realtà non avrà mai la forza di troncare, trovando di volta in volta attenuanti ed escamotage per salvare se stesso. Non si assolve completamente, ma superstiziosamente arriva persino a “trattare” con l’Entità superiore a cui pensa di dover rendere conto e di cui teme l’intervento vendicatore.
Frigerio dunque porterà avanti la relazione continuando di fatto a tradire la moglie e a condurre due vite parallele. E Franca? Lei è più forte e coraggiosa di lui, ed anche più generosa: istintivamente capisce tutto e vive in silenzio la propria consapevolezza. Pur nel dolore e nel disincanto, ferita come donna oltre che come madre, Franca si rassegna allo sgretolamento del rapporto di coppia, ma non a quello del matrimonio e della famiglia, per amore del figlio (dei figli, forse), che non può prescindere dalla presenza di entrambi i genitori.
Giorno dopo giorno, anno dopo anno dopo anno, Frigerio e Franca aiutano Paolo a crescere e a diventare se stesso, senza pretendere di assomigliare a nessun altro. E Paolo, fisicamente disabile, ma dotato di un’intelligenza vivace, di una acuta capacità di osservazione e valutazione critica, cresce sviluppando – incredibilmente, si direbbe – un senso fiducioso della vita e del prossimo: è cordiale, aperto schietto, simpatico, capace di ironia e autoironia, per cui è proprio da una sua battuta che talvolta nel racconto può farsi strada il sorriso.
Marito e moglie, padre e madre, vivono però il loro rapporto con Paolo, la loro funzione genitoriale ed educativa in modo diverso, come sono diversi i rispettivi modi si amare: più istintivo, più generoso e capace di accettazione e dedizione assoluta quello di lei. Controverso, accidentato, irto di impennate e cadute quello di lui, che tuttavia a sua volta approderà alla fine ad un maturo e consapevole riconoscimento sia della personalità del figlio sia del legame vitale e irrinunciabile che li unisce.
Invenzione ed autobiografismo
Lucidamente, senza illusioni né ipocrisie, anzi con una consapevolezza via via più netta e sicura, talvolta addirittura con lampi di bruciante chiaroveggenza o di sferzante ironia la voce del padre racconta e commenta. Ne esce un racconto realistico, onesto, umanamente credibile nella ricostruzione dei fatti e del percorso di vita, impietoso nell’analisi psicologica propria e dei propri interlocutori, criticamente libero da di inibizioni e conformismi nelle considerazioni di carattere generale. Insomma, tanto schietto da risultare talvolta persino imbarazzante.
È chiaro che il narratore è identificabile con lo stesso autore, non soltanto perché lo confermano diversi dati oggettivi, soprattutto la disabilità del figlio, che costituisce il movente della scrittura, ma perché nel personaggio protagonista molti indizi consentono l’identificazione: è un professore di Lettere colto ed intellettualmente raffinato, ha un’attenzione particolare per il linguaggio e i suoi meccanismi, specie nella comunicazione letteraria, che è appunto un filone di studio del Pontiggia saggista.
Intervistato a proposito dell’evidente autobiografismo del libro, che tuttavia mantiene la definizione e la caratteristica principale del romanzo, l’autore ha così motivato la propria scelta:
Il problema dell’handicap lo vivo in maniera diretta da 31 anni, da quando è nato mio figlio, ma avevo sempre escluso di farne un racconto autobiografico perché non ho interesse per la mia autobiografia: penso che l’autobiografia, almeno nel mio caso, mi renderebbe schiavo, mentre il romanzo mi rende libero. I vincoli del patto autobiografico per me sono opprimenti, rispettare la letteralità dei fatti, quando oltretutto non so mai bene come sono avvenuti, è una cosa che mi allontana. […] E’ vero che il narratore è la voce alla quale io sono più vicino e con la quale io di fatto mi identifico, sono presente in questo narratore ma non come io autobiografico, bensì come io ideale, come io in cui mi riconosco. Le cose che lui dice sono cose che io condivido, quasi sempre. Io ho attinto moltissimo dall’esperienza vissuta, ma questo avviene seppure in modo meno intenso anche nelle altre opere narrative. Molta è la parte inventata, modificata…
Un romanzo sui generis
Romanzo, dunque. Per “romanzo” si intende però una vicenda articolata in vari episodi, con una successione di fatti più o meno complessi in cui i personaggi sono protagonisti dell’azione che ne costituisce la materia narrativa fino ad arrivare ad una conclusione. Non necessariamente si tratta di una vera chiusura della vicenda o di un a soluzione innovativa rispetto alla situazione iniziale, ma narrativamente parlando, il percorso giunge comunque ad una conclusione.
Ma se le cose stanno così, allora Nati due volte è davvero un romanzo sui generis. Perché qui non si può nemmeno parlare di conclusione aperta,trovandoci piuttosto di fronte ad una serie di situazioni rievocate e interpretate dal padre, il professor Frigerio, a distanza di trent’anni dalla nascita del figlio disabile, commentate e ricostruite più che sulla base dei fatti oggettivi e sulla concretezza degli eventi, sulla rivisitazione delle sensazioni e delle emozioni che quei fatti e quegli eventi avevano provocato allora (nel padre, ma anche nella madre e naturalmente nel figlio stesso).
Rivivendo nella memoria gli anni dolorosi dalla nascita all’adolescenza del figlio Paolo, gradualmente prende coscienza dei propri limiti propri ed altrui nell’affrontare la malattia e le sue conseguenze, osserva la diffusa disabilità mentale, culturale, emotiva di chi si trovi a dover affrontare la disabilità fisica non propria, ma di una persona cara o comunque vicina. Da ciò Frigerio/Pontiggia prende atto della stupidità umana, quella di chi gli sta intorno (e magari dovrebbe, per effetto di un ruolo istituzionale di competenza avere la capacità di gestire la situazione) e soprattutto della propria. Ma, in quest’ultimo caso, l’urgenza del problema e l’angoscia per una soluzione che appare sempre più impossibile, si traduce a poco a poco in una crescita di consapevolezza, un processo di conoscenza in cui è il padre ad imparare dal figlio la dignità, il rispetto di sé, l’autoironia.
Per questo, se di romanzo si vuole parlare, direi che la definizione più giusta è romanzo di formazione, dove – paradossalmente – il processo di crescita e conoscenza non è quello del bambino ma quello dell’adulto.
Il sistema dei personaggi
Da questo punto di vista, naturalmente, un discorso a parte merita la figura femminile principale: Franca, moglie di Frigerio e madre di Paolo, cui la vita assegna un ruolo fondamentale e il racconto, sostanzialmente, rispetta. Frigerio e Franca naturalmente interagiscono e si relazionano anche reciprocamente e non soltanto in riferimento al figlio disabile. Il libro è infatti anche la storia di un matrimonio, di un rapporto non solo genitoriale padre-madre-figlio, ma anche personale e sentimentale uomo-donna, marito-moglie.
E Frigerio, che pure ama un’altra donna a cui non sa rinunciare, riconosce alla moglie qualità e pregi, generosità e forza che a lui invece non appartengono. La voce del professore è naturalmente quella di Pontiggia, che mentre assegna a Franca una superiorità affettiva, caratteriale, spirituale sul marito, contemporaneamente investe di ciò tutte le donne:
In generale, la donna è più solida, è più seria nei sentimenti. L’uomo ha la tendenza a giocare, a concepire l’amore come un gioco e non solo l’amore fisico ma l’amore nel suo significato più complesso. La donna invece investe nei rapporti, con più responsabilità, se stessa. Non dico che sia sempre così ma spesso è così. Io ho presentato un narratore che, come molti uomini, ha tendenze centrifughe rispetto alla vita matrimoniale, è innamorato di un’altra donna, è incapace di una dedizione così attiva, operativa, continua nei confronti del figlio, anche se non si sottrae alle sue responsabilità. […] La donna è probabilmente più forte, proprio sul piano della dedizione, è più generosa, ed è anche meno vittima dell’ideale maschile della prestazione, della performance e quindi accetta, seppure dolorosamente, con maggiore lucidità, il figlio nei suoi limiti, mentre il padre, come maschio, vive il dramma della disabilità in termini un po’ squilibrati, tipicamente maschili.
Nei personaggi minori, dai familiari agli amici di Paolo sono rispecchiate varie situazione e caratteristiche, dalla, dall’acredine ottusa e gretta della suocera di Frigerio, alla disponibilità disinteressata dei volontari amici di Paolo, passando attraverso un’intera gamma di atteggiamenti e manifestazioni di personalità che si evidenziano e prendono rilievo di volta in volta nell’incontro, o nello scontro, con la disabilità. Con la sola eccezione del fratello/figlio maggiore, la cui figura rimane inspiegabilmente del tutto opaca, presenza muta sullo sfondo, gli altri sono personaggi secondari sono spesso dotati di spessore psicologico (si veda la figura del suocero, per esempio) che li caratterizza a tutto tondo anche dal punto di vista del racconto, parallelamente al ruolo ricoperto nel rapporto con Paolo così come si viene a determinare nelle infinite occasioni della quotidianità.
Il “mondo ideale” dell’autore : indignazione e polemica
Tra gli interlocutori – persone e ruoli istituzionali – più significativi in relazione alla disabilità di cui si parla nel libro, c’è sicuramente la scuola. E qui Paolo e la sua famiglia trovano veramente di tutto, quasi sempre connotato in senso negativo: accoglienza accompagnata al pregiudizio, ottusità burocratica ed disponibilità umana, derisione ed imbarazzo insieme a qualche tiepida manifestazione di simpatia.
E proprio al mondo della scuola appartengono alcuni personaggi tanto abominevoli da apparire persino inverosimili nella loro forzatura caratteriale e comunque tali da maeritare qualche osservazione anche sul piano della scrittura e della rasa espressiva.
Uno è il professor Cornali, collega di Frigerio all’Istituto d’arte. Docente preparato, a tratti addirittura geniale, è però anche insensibile, crudele, fanatico nell’applicazione delle fissazioni didattiche apparentemente rivoluzionarie, in realtà solo ottuse e paradossali.
Poi c’è l’orrido direttore della scuola elementare frequentata da Paolo, un satiro di repellente corruzione morale, che unisce ad un handicap oscenamente ostentato la tendenza al ricatto e alla sopraffazione sia nei confronti delle sfortunate donne sue sottoposte, sia dello stesso Frigerio. La sua sozzura morale non ha nessuna grandezza e, nel momento in cui l’individuo rivela un’insospettata e velleitaria inclinazione per la creatività poetica, finisce anzi per sconfinare nel grottesco.
Tutta caricaturale è infine la descrizione della “preside cantante”, già a partire dalla definizione che funge da titolo al relativo capitolo, personaggio sostanzialmente vacuo, se non sul piano umano, certamente su quello intellettuale e culturale, che, per il, ruolo di cui è investita, non è poco.
Altrettanto mediocri risultano alla fine anche tutte le altre figure che si muovono nell’ambito della scuola, persino la maestra Bauer, che inizialmente appariva del l’unica accettabile.
Ma non si tratta solo di mediocrità. Sono caratterizzazioni spesso feroci, forse per un’involontaria e inconsapevole rivalsa dello scrittore, che il calvario di Frigerio, prima di raccontarlo, l’ha vissuto in prima persona e così spiega il proprio sarcasmo:
L’’handicap, in quanto tale, non sapevo quanto influenzasse il mio modo descrivere o di vedere: certamente ha avuto molta influenza ma non me ne rendevo conto. Può darsi che abbia acuito la mia tendenza satirica, ironica anche come arma di difesa e di sopravvivenza. […] il narratore, anche in questo romanzo, fa una sorta di immersione nell’angoscia, nell’abisso della disperazione, nel sottosuolo. Poi però ne esce e quando ne esce, avendo fatto questo percorso sotterraneo, e avendo visto la propria stupidità […] alla fine ne esce più lucido, più consapevole e a questo punto gli altri, che non hanno fatto lo stesso percorso, si configurano come personaggi comici.
E più specificamente, intervistato a proposito dell’immagine terrificante che ne ha dato dell’istruzione, risponde:
Io certamente ho raccontato il mondo della scuola quale l’avevo vissuto trent’anni fa. Penso che i pericoli che ho denunciato siano da un lato il rispetto formale delle regole seguendo una sorta di osservanza burocratica ottusa, dall’altro sia ideologismo velleitario e volontaristico, cioè considerare il disabile uguale agli altri. Siamo tutti uguali, semmai bisognerebbe introdurre un criterio opposto: siamo tutti diversi. La disabilità è una forma più grave e più vistosa, ma tutti siamo diversi e dovremmo tutti adottare dei metri un po’ particolari nell’avvicinare, giudicare, premiare o punire le persone.
Eppure, a mio parere, il panorama desolante e tutto al nero incarnato dai diversi operatori scolastici con cui Frigerio e soprattutto Paolo devono destreggiarsi (e difendersi) ha qualcosa che non convince, almeno sotto il profilo narrativo, se non in quello umano. Mi sembra un punto debole della mediazione artistica rispetto al dato biografico, appunto per l’assenza di attenuanti, l’unicità monolitica della visione, priva di sfumature e contrappunto. Benché tutto ciò si possa spiegare con l’amarezza per la negatività delle delusioni subite, accentuata probabilmente dell’altezza poco realistica delle aspettative, rimane qualcosa di stonato, una forzatura emotiva che intacca la limpidezza cristallina dello sguardo critico.
Tanto più che invece la rappresentazione dell’ambiente medico, altrettanto fondamentale nell’esperienza di vita di Frigerio/Pontiggia (e quindi del relativo racconto), cui vanno certamente attribuite molte responsabilità, errori e manifestazioni di incompetenza o arroganza, si presenta più variegata ed articolata, e soprattutto filtrata attraverso il necessario distacco che deve interporsi tra vissuto e scrittura.
Tempi e luoghi
Pubblicato nel 2000, Nati due volte colloca la narrazione in quell’epoca, dopo circa trent’anni dalla nascita di Paolo, che viene seguito dalla nascita all’adolescenza, collocando quindi la storia negli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Tuttavia, se la distanza viene più volte esplicitamente dichiarata , la collocazione cronologica dei fatti (anni Settanta e Ottanta del Novecento ) viene invece lasciata all’intuizione del lettore, perché è evidentemente ritenuta superflua o poco significativa rispetto al significato più interessante del testo.
Parallelamente e coerentemente con la scarsa rilevanza data nel libro collocazione temporale, altrettanto secondaria è la resa spaziale, perché altro è ciò che sta a cuore. Spazi e luoghi sono trattati in modo generico, non valgono in sé ma solo in quanto scenario dei movimenti e delle vicissitudini dei protagonisti. Qualche sporadico particolare topografico ci porta senza incertezze a Milano, ma la città in quanto tale rimane sostanzialmente sullo sfondo, non ha un ruolo narrativo definito per la sua specificità.
I luoghi e gli spazi del racconto sono piuttosto quelli marcati e determinati dal tema del racconto stesso: la disabilità del ragazzo co-protagonista e la sua difficoltà a spostarsi, a superare ostacoli e barriere lievi o addirittura inesistenti per gli altri, impervie per lui: la scala mobile del centro commerciale, la strada, i gradini della scuola, la spiaggia, lo scoglio della vacanza a Creta (peraltro episodio straordinariamente felice in una vita segnata da infinite delusioni e battaglie quotidiane).
Oppure sono i luoghi imprescindibilmente legati alla malattia stessa: ambulatori medici, ospedale, centro fisioterapico. Tutto ciò potrebbe essere ovunque: in qualsiasi città o paese d’Italia (e non solo, forse), un disabile e la sua famiglia si trovino a vivere e a costruire, giorno dopo giorno, un’esistenza più dignitosa e autentica possibile.
Una scrittura essenziale
I capitoli in cui è presente la “semplice” rievocazione dei fatti, brevi e talvolta brevissimi, si alternano ad altri di più ampio respiro, dedicati alla pura riflessione: sull’handicap, sul pregiudizio, la dedizione, la stupidità umana. Insomma, temi generali ed universali in cui ciascuno di noi può trarre materia di riflessione personale. È naturalmente in queste pagine di che l’identificazione ideale dell’autore con il narratore-protagonista si fa del tutto evidente: Frigerio è Pontiggia, al di là della sovrapponibilità più o meno estesa del percorso biografico, perché i valori, idee, la concezione della vita dell’uno coincidono quelli dell’altro.
L’alternanza azione/riflessione è marcata anche dalla differenza di linguaggio e di stile: secco, essenziale, incalzante il racconto dei fatti, dove spiccano i dialoghi di fulminante icasticità; più ampia, discorsiva, articolata la parte meditativa, che tuttavia spesso non rinuncia a concludere un ragionamento in modo lapidario, con una sentenza di sferzante consapevolezza. In entrambi casi, comunque, la scrittura si mantiene scarna, pulita, “pura”, senza per questo essere casuale o istintiva, rivelandosi, invece frutto di una sapiente ricerca formale e di una costruzione letterariamente molto elaborata.
(L’intervista citata, pubblicata il 4 dicembre 2000, si trova nel portale La libreria di Dora, http://www.italialibri.net/arretratis/novita1200.html