QUANDO L’AUTORE …SONO TRE!
Quando diciamo sabot oggi siamo portati a pensare a quel particolare tipo di calzatura estiva, un po’ zoccolo e un po’ ciabatta, con la tomaia di pelle o di stoffa e la suola alta, per lo più di sughero: un accessorio di moda, comodo ma elegante, talvolta addirittura raffinato. Oppure pensiamo alla versione più recente, quei Crocs di gomma che hanno conquistato grandi e piccoli con la sfiziosità dei loro colori sgargianti come insegne al neon. Non tutti sanno però che i sabot –termine del patois francoprovenzale assurta ai vertici dell’internazionalità – nelle loro lontane origini erano calzature interamente di legno tutt’altro che eleganti e sfiziose, e di sicuro non particolarmente comode, usate da montanari e contadini francesi e valdostani che non potevano permettersi nessun altro tipo di scarpa, ma col materiale di cui abbondavano le loro vallate fabbricavano questa sorta di zoccolo chiuso, che li proteggeva dal freddo e dal fango.
Forma e tecniche di produzione, con i relativi arnesi, nel corso degli anni andarono progressivamente affinandosi e stabilizzandosi in caratteristiche codificate, e pertanto destinate a diventare immutabili e tipiche. I sabot tradizionali però sono sempre rimasti una calzatura povera, destinata alle componenti più basse e indigenti della popolazione. Che a partire dalla fine del XVII secolo non comprendevano soltanto i contadini, ma anche gli operai impiegati nella nascente industria, soprattutto tessile, le cui condizioni di vita nell’ambito della nuova realtà economica, ben presto cominciarono a rivelare ancora più alienanti di quelli riservati alle masse rurali. Per questo, sin dall’inizio, non sono mancati episodi di protesta, rivolte incontrollate, ribellioni prive di organizzazione, tanto motivate quanto disperate. E destinate al fallimento, almeno a breve termine. Una di queste azioni di protesta vedeva protagonisti proprio i sabot, che gli operai francesi lanciavano in mezzo agli ingranaggi dei telai meccanici per bloccarne il funzionamento e vanificare così l’intero ciclo produttivo. Da qui saboter e sabotage, verbo e sostantivo passati dal francese all’italiano (e non solo) per indicare, in senso letterale o figurato, l’atto volontario di colpire con i sabot, ovvero danneggiare e rendere inoperanti per protesta edifici, strutture, progetti, idee.
A questo significato ribelle e combattivo del termine si è ispirato Massimo Carlotto, scrittore che non ha bisogno di presentazioni, quando intorno al 2007 in Sardegna ha costituito i Mama Sabot,un gruppo di ricerca e di scrittura insieme ad alcuni giovani autori, originari dell’isola, attenti conoscitori della sua realtà, e soprattutto fortemente motivati a denunciare, attraverso la scrittura, episodi e situazioni in cui loschi interessi pubblici e privati, sotterranee complicità e colpevoli silenzi prevalevano sulla tutela dell’ambiente, la legalità, la sicurezza degli abitanti. Il punto di partenza era il sospetto, poi divenuto molto più di questo, che in una base militare il cosiddetto Poligono Sperimentale di Addestramento multiforze del Salto di Quirra, in provincia di Cagliari, si usasse per presunte “esercitazioni” nientemeno che l’uranio impoverito, con tutte le conseguenze ambientali ed umane che si possono facilmente immaginare. Il punto d’arrivo è stato Perdas de fogu, un bellissimo libro-inchiesta uscito sotto il nome dell’intero gruppo: non una giustapposizione di tante voci individuali, ma una voce unica per dare visibilità alle idee, alle storie e alla voglia di raccontare dei suoi componenti.
Col tempo i Mama Sabot hanno cambiato nome, adottando quello attuale di Collettivo Sabot, mantenendo però, oltre al riferimento alle ormai famose calzature, tutta la carica polemica e la volontà di compiere, attraverso l’attività letteraria, un’azione di impegno civile che porti alla condivisione della verità e permetta di innescare un moto di critica verso le ingiustizie e le incoerenze della nostra società. Indagare, scoprire, demistificare: questo lo scopo del gruppo, intenzionato a usare la narrativa con la stessa funzione dell’antico sabot degli operai francesi: arma per rovinare il gioco ai potenti colpevoli e corrotti, smantellare la falsità delle versioni ufficiali, svelare gli imbrogli, sgretolare la cappa omertà che avvolge tanti, troppi fatti e misfatti italiani. Facendo sì che scrivere sia un modo di lottare e, per contro, leggere diventi una forma di opposizione sociale e culturale.
I libri che ne derivano hanno tutto il rigore dell’inchiesta giornalistica e la forza d’urto della denuncia sociale, uniti alla capacità di attrattiva e coinvolgimento della letteratura d’intrattenimento. Insomma, la verità resa avvincente come un romanzo. Nero, naturalmente, perché altro non può essere, se la materia narrativa consiste in fatti criminali, per quanto spesso abbelliti dalla patina rassicurante della legalità. E i protagonisti sono autentici malavitosi, sia che appartengano alla delinquenza dichiarata, sia che indossino la maschera di un’insospettabile rispettabilità.
Siamo dunque nell’ambito della letteratura di genere, un genere in realtà di origine cinematografica prima che narrativa, e sempre di difficile definizione, perché del tutto eterogeneo ed ibrido, con elementi che non solo appartengono a ambiti diversi e svariati, ma addirittura riportano a forme espressive altre, come il teatro e il fumetto. Tuttavia, nel vasto mare del noir, che trova nella produzione anglo-americana molti interessanti e autorevoli esempi, si distingue una corrente originale e ben delineata, in cui si collocano anche i libri proposti dal Collettivo Sabot. Viene detta noir mediterraneo, dall’area geografica di diffusione, ovvero la provenienza degli autori e l’ambientazione delle storie narrate, e infatti riconosce il proprio maestro nel marsigliese Jean-Claude Izzo, autore, fra l’altro, della celebre Trilogia di Fabio Montale. Ma è dai contenuti e dalle finalità a cui risponde che questa corrente trae ragioni di identificazione ben più sostanziali e rilevanti. Perché , come si è detto, è una produzione impegnata, animata dall’intento di denunciare misfatti, connivenze e responsabilità su argomenti di interesse pubblico, rompendo il muro di indifferenza voluto o quantomeno tollerato talvolta persino dalle stesse vittime. È la medesima caratteristica che impregna di sé anche il cosiddetto giallo mediterraneo , dove ovviamente cambiano le tecniche narrative e gli stilemi tipici del genere, ma si mantiene l’attenzione vigile su aspetti sociali, ambientali, politici di grande impatto civile. L’indagine, che nel noir è precedente rispetto all’azione, narrata secondo una focalizzazione interna alle menti criminali dei personaggi, diventa invece materia e sostanza stessa del racconto giallo. Ma in definitiva, gialla o noir che sia, la mediterraneità si definisce come letteratura di denuncia e resistenza.
Data questa missione senza’altro affascinante ma impegnativa, si può comprendere come il concetto di collettivo, ovvero di gruppo di lavoro composito ma solidale, acquisti un proprio motivo di esistere. Se la scrittura risulta soltanto come fase finale dopo un intenso e complesso lavoro di indagine e di preparazione preliminare, svolto affondando nel fango di situazioni scabrose e di ambienti corrotti, è evidente che, per essere svolta al meglio, richiede l’unione di più risorse intellettuali. E la stesura stessa, infine, risulta tutt’altro che semplice, se alla consueta esigenza di escogitare strumenti espressivi efficaci per trasmettere ai lettori non banali informazioni, ma sensazioni, atmosfere ed emozioni – fatica comune a tutti gli scrittori – si aggiunge anche la necessità di trovare soluzioni comunicative e stilistiche che annullino asperità e dissonanze dovute alla pluralità delle entità autoriali, dando l’illusione di una voce unica ed originale.
Ma dunque, in cosa consiste e come opera un collettivo di scrittura? Intanto diciamo subito che non tutti sono uguali, sia nel metodo di lavoro, sia nel concetto stesso di collettivo. Esistono, per esempio, organizzazioni i cui componenti si annullano completamente come individualità, fino al punto di mantenere lo pseudonimo del collettivo anche nella produzione autonoma, oppure preferiscono non apparire in pubblico proprio per non alimentare personalismi, ritenuti – a torto o a ragione – addirittura lesivi degli interessi del gruppo. Il Collettivo Sabot, invece, a certi atteggiamenti di coerenza estrema, che a qualcuno francamente potrebbero apparire esagerati, non vuole arrivarci . Lo spirito di gruppo, e con esso la condivisione degli ideali e degli intenti narrativi, la collaborazione e anche l’amicizia, ovviamente, rimangono, ma ciascun autore mantiene ben distinta la propria personalità e non sente di tradire il collettivo se firma in proprio ogni lavoro autonomo. Né rifiuta una eventuali collaborazioni esterne ai Sabot, qualora le giudichi stimolanti e costruttive per la propria personale ricerca di crescita letteraria.
Di questo – ed altro – parliamo con Stefano Cosmo che, unico veneto in un gruppo di scrittori sardi, del Collettivo fa parte insieme ad Andrea Melis, Renato Troffa, Piergiorgio Pulixi, Ciro Auriemma, Michele Ledda.
Diversamente dai colleghi, il suo ingresso nel gruppo non è avvenuto quindi per vicinanza geografica, ma attraverso il contatto diretto con Massimo Carlotto, che dei Sabot è il fondatore, cui il giovane Stefano aveva inviato un suo lavoro.
Lui non lo dice, e quindi non posso esserne sicura, ma ho il sospetto che si tratti di Strade senza nome, il bel romanzo d‘esordio, uscito nel 2008 e oggi praticamente introvabile, scritto sull’onda degli interessi e delle informazioni derivate dai suoi studi universitari riguardo la tratta di esseri umani. Vi si racconta infatti la vicenda dolorosa – e purtroppo del tutto verosimile – di una giovane prostituta nigeriana schiava di trafficanti e sfruttatori, sullo sfondo di una landa veneta, tra Padova e Treviso, segnata dai tratti di una sinistra bruttezza. A indagare e a fornirle uno spiraglio di speranza c‘è Ettore Lupi, un simpatico ispettore di origini umbre, dislocato al nord per ragioni di servizio. È un noir, naturalmente, di enorme interesse e di gradevole lettura , dove, nell’organizzazione della trama e nell’andamento del racconto già si intuisce la stoffa dello scrittore che verrà.
Dunque, letto il libro, Carlotto gli propone di entrare nel Collettivo: proposta accettata, ovviamente, come è ovvio che nei confronti del “maestro” Stefano Cosmo nutra ora riconoscenza ed ammirazione. Ma lasciamo spazio direttamente alla sua voce:
A Massimo Carlotto ho presentato un romanzo che avevo scritto; dopo qualche tempo mi ha parlato del Collettivo e della possibilità di entrarne a far parte. Non conoscevo nessuno del Collettivo, solo Carlotto. Sinceramente l’anno preciso non lo ricordo…
Quindi, Carlotto è stato determinante per il tuo ingresso nei Sabot?
Fondamentale, direi!
Quale è il tuo rapporto con lui?
Un ottimo rapporto. Confrontarsi con lui su tutto ciò che riguarda la letteratura, di genere e non, è molto arricchente.
Quale è attualmente il ruolo di Carlotto nel Collettivo?
E’ il fondatore del Collettivo, oltre a un punto di riferimento. È una persona con una cultura impressionante, un vero professionista della letteratura che sa spaziare sui generi e sperimentare senza paura, tra l’altro con ottimi risultati.
Come si comporta Carlotto con voi giovani del Collettivo?
Ci dà dei consigli preziosi, sia sul metodo di lavoro sia sulla fattibilità di una trama o meno. È come andare a bottega da un mastro vetraio, ma senza forni che vanno a mille gradi.
Il Collettivo è nato e si è sviluppato in Sardegna, e precisamente fra gli scrittori, tutti sardi, che requentavano una certa libreria indipendente di Cagliari, punto d’incontro e base dei lavori del gruppo. In questa situazione, per te non deve essere semplice. Ti sei sentito emarginato, fuori dal giro, ecc.?
No, non mi sono mai sentito emarginato. Con gli altri componenti del Collettivo rapporto è buono, ci confrontiamo spesso sulle nostre idee, sia come autori singoli che in gruppo. Purtroppo per via della distanza non li vedo spesso, ma siamo anche amici.
I componenti del collettivo attualmente sono sei. Però per scrivere Padre Nostro è nata la collaborazione specifica con Pulixi e Auriemma. Sul piano umano e personale, ci sono affinità particolari che vi uniscono? Oppure si tratta soltanto di una collaborazione professionale?
C’è senz’altro qualcosa di più della semplice collaborazione professionale. Con Piergiorgio sento di avere più affinità perché abbiamo la stessa età e molti interesse in comune, inoltre ci piacciono gli stessi action movie…
E la condivisione degli ideali del Collettivo (che già non è poco)?
Sicuramente c’è anche quella!
Il Collettivo, oltre ad avere l’ideale della denuncia sociale, ha anche un preciso orientamento politico nell’Italia di oggi? Se sì, quale?
Attraverso le nostre storie vogliamo agire suscitando l’interesse delle persone a guardarsi attorno con sguardo critico. Nell’Italia di oggi, personalmente, a me basterebbe bloccare gli ingranaggi della macchina della menzogna.
Pensi che la posizione politica del Collettivo, e comunque di un autore, influisca sul tipo di libri che pubblica? Se sì, influisce solo sui contenuti o anche sulle modalità di scrittura?
Penso più sui contenuti.
Su un altro versante, pensi che per il componente di un collettivo sia giusto alternare la scrittura collettiva a quella individuale, con la pubblicazione di opere autonome?
Assolutamente sì.
Alcuni scrittori appartenenti a diversi collettivi (pensa soprattutto ai Wu Ming) arrivano a soluzioni abbastanza estreme, tendendo ad “annullarsi” individualmente. Racconta invece come si organizza il Collettivo Sabot a questo riguardo.
Noi ci facciamo fotografare senza problemi e ci firmiamo con i nostri nomi tenendo presente che apparteniamo a un collettivo.
Su questo argomento, vi adeguate tutti allo stesso comportamento? E qual è la tua opinione personale a proposito?
Penso che essere sempre d’accordo su tutto sia molto difficile. Ci sono scontri e confronti come all’interno di qualsiasi altro gruppo.
Torniamo a Padre Nostro. Come ti sei trovato a lavorare con Pulixi e Auriemma? E’ stato difficile mediare tra le vostre varie opinioni ed intenzioni di scrittura?
Lavorare in tre non è mai semplice. Ci sono vari punti di vista e divergenze sulla storia, ma bisogna sempre usare un approccio professionale e tenere ben presente l’obiettivo finale. I contatti non sono sempre facilissimi, visto che viviamo in posti diversi, ma ci sentiamo spesso al telefono e su skype.
In particolare, più che mettersi d’accordo sulla trama, immagino che la difficoltà maggiore sia evitare che si senta la differenza di scrittura e di stile delle diverse mani che lavorano. È corretta questa supposizione?
Correttissima,infatti abbiamo fatto parecchie stesure a riguardo.
A proposito della sua collaborazione con Videtta, Massimo Carlotto parlava della creazione del cosiddetto “terzo autore” virtuale, che scrive in un modo tutto suo, diverso dai modi individuali dei suoi due “padri”. Spiega come fate voi nella pratica del Collettivo per risolvere questo problema.
Penso anch’io che alla fine si collabori per far nascere proprio un altro autore unendo tutto. Noi del Collettivo abbiamo un approccio alla scrittura molto cinematografico, ci dividiamo i compiti, mettiamo insieme le cose e poi rielaboriamo.
Rispetto allo stile che nasce da questa scrittura collettiva, come e quanto differisce il tuo modo personale di esprimerti letterariamente?
Non molto, direi.
Quindi, come pensi di poter definire e descrivere il tuo stile?
Spero veloce e d’impatto.
In definitiva, pensi di poter affermare che questa esperienza di “collettività espressiva” ti sia servita a livello formativo?
Sì certo, molto.
In sintesi, allora, che cosa hai tratto (e continui a trarre) dall’esperienza del Collettivo?
Che scrivere è fatica.
D’altra parte, in un’altra nostra “conversazione” sei stato tu a dirmi che…
… che sono uno che per realizzare i propri obiettivi conosce una sola strada: farsi un c…o così dalla mattina alla sera.
Allora…Piuttosto, hai detto che consideri giusto e necessario alternare la scrittura collettiva e quella individuale. Adesso, dopo l’esperienza di Padre Nostro, ti proponi di cambiare, sia nel senso di scrivere da solo, sia nel senso di provare nuove collaborazioni?
Mi piacerebbe scrivere qualcosa per conto mio e sono sempre aperto a nuove collaborazioni.
Tu vivi a Marghera, che per tanti aspetti è un mondo interessantissimo. Ti piacerebbe affrontarne la realtà in un prossimo libro?
Certo che sì, mi piacerebbe molto, è una città che ha molto da raccontare.
E i progetti per il futuro immediato quali sono?
Questo per ora è un segreto!
Un’ultima domanda, allora. I componenti del Collettivo, oltre che scrittori, sono anche musicisti. Tu come te la cavi sul piano musicale?
Zero, al massimo so suonare il campanello di casa!
Daniela Palamidese