Il paese di Saimir

VALERIO VARESI: Il paese di Saimir, Edizioni Ambiente, Noir di ecomafia, Verdenero, Milano, 2009.

UNA STORIA CRUDELE

Che Valerio Varesi non sia autore solo di gialli probabilmente è noto a tutti i suoi lettori. Che  tra i suoi libri sia sempre possibile trovare una grande aderenza la realtà dei nostri tempi e alle sue problematiche è altrettanto risaputo, ma forse non tutti sanno che egli ha scritto anche opere che all’indubbio pregio letterario uniscono il la capacità persuasiva dell’inchiesta giornalistica e il valore dell’impegno civile. È per questo che vorrei segnalare Il paese di Saimir,  uscito nel 2009 presso le Edizioni Ambiente, una casa editrice d’assalto, che con la collana Verdenero pubblica romanzi noir, proponendosi sollecitare l’attenzione del pubblico su alcune delle vicende e le pratiche più scandalose che testimoniano il grado di inciviltà a cui sembra essere giunta almeno una parte della popolazione e della classe politica italiana.

Il paese di Saimir èun piccolo grande libro che si legge tutto d’un fiato: intenso, duro, cattivissimo, come duri e cattivissimi sono personaggi e gli argomenti trattati. Ambientato in una città del Nord Italia non meglio identificata, tratteggia un paesaggio urbano straniante, in cui ai quartieri centrali, seducenti per mille attrazioni più o meno lecite, si contrappone una tetra periferia dove tenta di sopravvivere un’umanità dolente, emarginata, invisibile. Sono i non-luoghi del degrado e dello squallore, popolati da piccoli delinquenti, tossici, immigrati, che Varesi sceglie di tratteggiare in modo rapido, privo di compiacimenti descrittivi, affidando all’evidenza dello scempio ambientale il compito di esprimere anche le contraddizioni e le iniquità sociali.

Proprio in  questa realtà si muovono alcuni dei protagonisti. Quattro giovani clandestini albanesi, sfruttati in un cantiere abusivo, dove si compie il delitto consueto della speculazione edilizia più selvaggia. A ingaggiarli, al di fuori di tutte le regole a causa del loro disperato bisogno di lavorare, è Inardo, un capomastro privo si scrupoli, ma a sua volta insignificante pedina nelle mani del vero padrone, l’imprenditore Rivalta. Questi non è un semplice palazzinaro carogna e senza legge, ma un vero e proprio criminale, un individuo abominevole che sotto una parvenza di rispettabilità (supportata dalle sue conoscenze politiche, a loro volta marce fino al midollo) nasconde un personalità forse malata, certamente brutale fino alla ferocia e capace di arrivare, se necessario in nome del dio denaro, fino all’omicidio.

Quando nel cantiere dove lavorano i clandestini albanesi si verifica un incidente e il giovane Saimir, appena sedicenne, rimane sepolto sotto le macerie di un edificio crollato, tutta l’abiezione dei personaggi ha modo di dispiegarsi, spaziando dalla macchinazioni criminose degli italiani alla vigliaccheria interessata degli immigrati, fino ad esplodere nella delinquenza pura del boss albanese Smirald. Nei calcoli e nelle contrattazioni che ciascuno conduce a proprio vantaggio, non è possibile trovare un barlume di etica, e neppure di solidarietà umana. Saimir – ferito, ma vivo e lucido – appare subito la vittima designata, l’agnello sacrificale destinato a pagare per tutti. Egli potrebbe essere salvato, se solo si volesse, ma viene lasciato lentamente morire, perché, secondo una logica spietata, così conviene a tutti. E mentre per qualche tempo sembra che la mala albanese e l’imprenditoria italiana arrivino ad allearsi in un progetto sciagurato, persino il suo cadavere, occultato e manipolato, diventerà alla fine strumento potenziale di tradimento e ricatto. L’evoluzione dei fatti non porta però una vera e propria conclusione: la fine del libro non è la soluzione della vicenda, che rimane aperta su alcune ipotesi di sviluppo dove vincerà chi avrà saputo essere più corrotto o più violento.

Il racconto principale, che costituisce la maggior parte dei capitoli, è in terza persona e la costruzione degli eventi procede in modo consequenziale (fabula e intreccio coincidono). L’azione incalza a ritmo serrato: per questo, più che avvalersi dell’affabulazione di una voce narrante, Varesi utilizza sapientemente il dialogo, facendone un elemento funzionale a caratterizzare i personaggi e ad esporre la successione dei fatti secondo i diversi punti di vista. Qui prevale un linguaggio duro  e spesso scurrile, richiesto dalla scelta di realismo espressivo.

La struttura del romanzo non è comunque lineare, perché vi sono  intercalati capitoli in cui la scena si sposta in Albania, dove vive la madre Saimir, figura umanissima e dolente, abbandonata da tutti i suoi otto figli, sparsi per il mondo per sfuggire ad una realtà desolata, ma sostenuta dalla speranza che almeno il più giovane abbia trovato fortuna nel suo nuovo paese. In queste pagine è mantenuta la terza persona, ma il tono è fortemente soggettivo ed interiorizzato, con un uso frequente del discorso indiretto libero. Inoltre – e sono i passaggi più angoscianti, soprattutto perché il lettore conosce quello che il povero Saimir ignora – sentiamo anche la voce del ragazzo sepolto sotto le macerie, che aspetta i soccorsi ed esprime le proprie considerazioni, quelle di un adolescente che pensava di avere tutta la vita davanti a sé e ora è incapace di credere che tutto sia finito così, solo perché i suoi compagni lo hanno abbandonato. Una voce sempre più debole, sempre più disperata. Poi il silenzio.

Daniela Palamidese

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