LEONARDO SCIASCIA: Todo Modo, Torino, Einaudi, 1974
STRANI ESERCIZI SPIRITUALI
In un albergo di lusso, isolato quasi come un eremo, si riuniscono i notabili di un gruppo cattolico. Sono vescovi, cardinali, industriali, tutti uomini di potere, che, come ogni anno, partecipano agli esercizi spirituali. Ma questo è solo un preteso. In realtà la vera ragione dell’appuntamento è l’occasione di tessere trame, alleanze, progetti, che portino ad una divisione del comando non solo in Sicilia, ma nell’intero Paese. Li accoglie, e in qualche modo li manovra, don Gaetano, inquietante figura di prete coltissimo e spregiudicato, che sembra saper tutto e tutto comprendere.
Le cose però non procedono come al solito. Una serie di delitti inspiegabili viene a decimare il gruppo dei notabili. Le autorità poliziesche e giudiziarie indagano, o fingono di farlo, senza alcun risultato che non sia quello di ostacolarsi e insultarsi a vicenda.
La voce narrante è quella di un pittore laico e miscredente, capitato casualmente all’albergo per un periodo di riposo. Egli assiste, dapprima sorpreso e poi sempre più incuriosito, agli inconsueti avvenimenti, e quando lo stesso don Gaetano sarà ucciso si presenterà provocatoriamente come il responsabile del delitto, senza peraltro essere creduto. Il libro si conclude così, lasciando aperta la soluzione: il colpevole non viene svelato. Del resto, per dichiarazione dello stesso Sciascia, è irrilevante, perché quello che ha armato la mano dell’assassino è comunque il Capitale, chiunque sia l’esecutore materiale del delitto. La violazione dei canoni tipici del genere “giallo” sta dunque a denunciare il totale pessimismo dello scrittore, la sua consapevolezza dell’impossibilità di affermare la ragione e la verità.
Il titolo dell’opera riprende una frase di sant’Ignazio di Loyola, e significa “ogni mezzo” (è utile per ottenere la grazia di Dio). Ma l’autore opera un amaro stravolgimento del senso, perché per i protagonisti non si tratta di ottenere la grazia di Dio, bensì potere e profitto senza limiti e senza regole. Se infatti nel ’71, con Il Contesto, Sciascia aveva raccontato la crisi del partito comunista, nel 1974 con Todo Modo intende estendere la sua analisi proponendo una spietata rappresentazione della corruzione dell’intera classe politica italiana, con particolare riferimento alla Democrazia Cristiana, che proprio in quello stesso anno riceverà una pesante sconfitta elettorale dopo decenni di supremazia.
Ma raccontandone, pur senza nominarla, gli scellerati meccanismi di palazzo, il libro rappresenta anche l’irreversibile crisi all’interno di un paese che di lì a qualche tempo sarà lacerato dal terrorismo e destabilizzato nelle istituzioni: sembra così acquistare un valore profetico sia in rapporto agli esiti del partito, sia in rapporto alla fine del suo leader, Aldo Moro, destinato ad essere ucciso dalla Brigate Rosse nel 1978. A favorire l’equivoco dell’identificazione del protagonista con il presidente democristiano contribuirà poi anche il film di Elio Petri, magistralmente interpretato da Gian Maria Volonté, grazie alla somiglianza fisica e all’abilità mimetica dell’interpretazione. capaci di orientare pesantemente una certa lettura del testo. È lo stesso scrittore a testimoniare il peso assunto nella lettura del testo dalle vicende successive, chiarendo mentre ovviamente l’errore si può correggere con un semplice confronto cronologico.
Ai tragici fatti del 1978 Sciascia peraltro dedica effettivamente la propria attenzione con il pamphlet L’affaire Moro, uscito contemporaneamente in Italia e in Francia (e fonte di molte polemiche). Del resto, tutta la sua opera testimonia l’attenzione al “reale”, e nasce da una lucida volontà di analisi delle secolari piaghe politiche e sociali innanzitutto siciliane e poi italiane, per approdare infine ad una prospettiva ancora più estesa. La Sicilia allora viene interpretata come una condizione dello spirito, metafora universale di una visione non più cronologicamente e geograficamente determinata, ma esistenziale e quasi metafisica, pertanto disgiunta da specifiche causalità storiche. È una visione più ampia, ma anche, secondo alcuni, ideologicamente più ambigua e, in quanto generica, anche sostanzialmente sterile.
Superato l’atteggiamento da moderno illuminista, che aveva caratterizzato inizialmente i suoi testi (sostanzialmente d‘invenzione ma con l’indubbio sapore del documento di denuncia) l’autore infatti approda ad un diffuso pessimismo, in cui prevale una sostanziale sfiducia nelle risorse del progresso e della ragione, che non valgono a promuovere un reale processo di liberazione. È confermata l’adesione ad una tesi, ma ora questa non afferma alcuna possibilità di miglioramento e anzi coincide con la visione negativa ed immobilistica della società e delle sue strutture di potere. Si avverte un diffuso sentimento di malessere e di impotenza di fronte alla corruzione ed alla connivenza, viste come aspetto dominante nel mondo. Impossibile costruire una società più giusta e meno mistificatoria; il “male” è diffuso e dilagante, né vi si può trovare rimedio con le armi dell’impegno individuale.
Così la forma del giallo, presente nei romanzi più significativi, offre ancora l’opportunità di sfruttare il meccanismo dell’indagine, ma il prevalente pessimismo non consente di condividere gli esiti tradizionalmente liberatori del genere (dove solitamente si scopre la verità e si punisce il colpevole, ristabilendo una sorta di equilibrio e di giustizia) e impone delle conclusioni irrisolte, sostanzialmente delle non–soluzioni. La verità non si scopre, o, se si scopre, non porta a nessun cambiamento; non c’è riscatto né giustizia, ma solo la presa di coscienza dell’impotenza, la sconfitta della ragione di fronte al sopruso e alla corruzione. Coerentemente con questa impostazione, lo stile è scabro, essenziale, amaramente razionale.