VALENTINA PATTAVINA: La libraia di Orvieto, Fanucci Editore, Roma 2010
Gruppo di lettura L’Italia in Giallo – 21 marzo 2013
UNA LIBRAIA IN FUGA
Prendi una cittadina della provincia italiana ricca di storia e di arte, descrivila nei suoi scorci più suggestivi e pittoreschi, caratterizzala per un’atmosfera un po’ pettegola ma tutto sommato dolce e quieta, mettici anche lo scenario accattivante di una bella libreria d’essai il cui proprietario è un signore un po’ eccentrico, ma autentico gentiluomo, di quelli che oggi non si trovano più; introduci una donna ancora giovane, in fuga da un vissuto doloroso che ora ne smorza lo slancio interiore; arricchisci il tutto con un certo numero di personaggi bislacchi, tuttavia simpatici, compreso un giovanotto belloccio e un po’ scapestrato forse in grado di scalfire la corazza emotiva della protagonista. Dovrebbe risultarne una miscela con tutti gli ingredienti giusti per incatenare l’attenzione del lettore. Se poi pensi che il nucleo narrativo principale è una storia cupa che a poco a poco viene fatta affiorare da un lontano passato, svelando segreti inconfessabili e risvolti umani ora sordidi ora commoventi, il gioco è fatto: suspence garantita fino all’ultima pagina!
E invece no. Nonostante molti buoni spunti e parecchie trovate interessanti, c’è qualcosa che non convince del tutto. Valentina Pattavina, al suo esordio, nella narrativa ma non nella scrittura, avendo al proprio attivo una lunga esperienza come autrice di monografie e studi sullo spettacolo, si è qui proposta di costruire una black comedy in cui “intimismo dramma e humour si alternano e si incrociano” (cito dalla quarta di copertina). In realtà, a mio parere, il libro promette molto ma mantiene poco e finisce per rimanere una commediola sin troppo caramellosa. Non bastano qualche bella descrizione paesaggistica né alcune situazioni esilaranti condite con battute relativamente divertenti a tenere in piedi un romanzo, tanto meno un giallo, se poi manca la coesione del testo e l’azione procede lenta e priva di mordente, prima disperdendosi in tanti rivoli secondari (troppi e non tutti coerenti) e poi precipitandosi verso la conclusione, senza aver creato nel lettore un adeguato “orizzonte d’attesa” e soprattutto senza fornire una soddisfacente motivazione narrativa alle rivelazioni finali relative ad una vicenda sepolta dal tempo e quasi dimenticata.
La struttura del testo è moderatamente complessa. Un prologo ed un epilogo riportano l’azione indietro di dieci anni racchiudendo a cornice i capitoli che raccontano la storia principale (ai giorni nostri, in prima persona), ovvero la parte più lunga del libro comprendente l’arrivo di Matilde a Orvieto e l’insediamento in libreria, con tutta la successione dei fatti fino alla soluzione del giallo. Ma in questa sezione centrale la narrazione poi non è compatta, perché viene interrotta da un certo numero di lettere, che non saranno mai spedite, indirizzate dalla libraia a Livia, un tempo amica carissima ed ora nemica giurata, a causa di un tragico incidente di cui Matilde stessa si è resa involontariamente responsabile. Qui vengono (un po’ oscuramente) rievocate le ragioni della sua fuga inquieta di città in città, sono indagati i suoi sentimenti e le sue paure, in un percorso che, lettera dopo lettera, la porterà a farsi una ragione di ciò che è e successo e infine a superare, se non dimenticare, le vecchie ferite.
Ma cosa era accaduto ad Orvieto dieci anni prima che vi arrivasse Matilde? In una radura del bosco vicino alla città era stato rinvenuto il cadavere di un vecchio impiccato. L’identità del morto, come le condizioni in cui si fossero verificati i fatti erano rimaste oscure e, nonostante parecchi motivi di perplessità, il caso era stato archiviato come suicidio. Matilde e Michele, il giornalista un po’ sfigato nipote del proprietario della libreria dove lavora la donna, proprio per queste incongruenze, si interrogano e indagano. Lui è spinto dal desiderio di realizzare lo scoop che finalmente dia un’impennata alla sua non brillante posizione professionale, lei collabora per curiosità e soprattutto per l’attrazione che, volente o no, prova verso il fascinoso ma imbranato giovanotto. Insieme scopriranno che si è trattato di un delitto, deciso a freddo un po’ per disperazione, un po’ per vendetta. E scopriranno anche che i colpevoli sono proprio i personaggi più insospettabili, mentre tutti gli altri sono comunque coinvolti in una cappa di silenzio e complicità, convinti che in questo modo, nonostante tutto, si sia ripristinata una qualche forma di giustizia. Tutto ciò lo apprendiamo dall’epilogo in cui, con toni surreali, viene appunto riproposta la scena dell’omicidio.
Se poi questa storia torbida e misteriosa non riesce completamente avvincente è dovuto ad una narrazione dispersiva e spesso pesantemente didascalica, che le impedisce di prendere il volo e di catturare il lettore. Già l’alternanza di diversi piani narrativi e registri stilistici può non entusiasmare, ma si sa che è una dichiarata scelta autoriale; non altrettanto consapevole però può essere qualche costrutto sintattico un po’… anomalo. Comunque, secondo me, le scelte espressive meno azzeccate, anzi francamente fastidiose, sono le frequenti, frequentissime citazioni letterarie, alcune esplicite, altre anonime. E per di più affiancate da inserti testuali di ogni genere e di ogni epoca, spaziando dalla Bibbia ai manuali, ai trattati e repertori, e poi ancora da ricette e istruzioni. Passi per i “siparietti” che introducono i vari capitoli, del tutto fuori contesto, ma almeno non invasivi: che bisogno c’era di gravare la narrazione con questo sfoggio culturale pedante e pretenzioso?
Un altro fattore di debolezza va imputato ai personaggi, a partire da Matilde, la protagonista, i cui alcuni tratti psicologici, se condotti con maggiore perizia e coerenza, sarebbero potuti essere molti interessanti, ma… Tutto resta a livello embrionale e talvolta poco motivato: ad esempio, perché sua madre era così carogna? E che cosa è successo esattamente tra Matilde e Livia dopo la tragedia che evidentemente ne ha distrutto la vita? Qualcosa di approssimativo ed irrisolto c’è anche in Michele, il cui ruolo nella trama avrebbe richiesto una caratterizzazione più accurata. Quanto ai personaggi secondari, rimangono abbozzati e monotematici (tipi, ci spiegavano un tempo a scuola, in contrapposizione ai caratteri) oppure sono delle vere e proprie caricature cui viene affidato di volta in volta uno dei vari sketch in cui si articola il racconto. Proprio per la presenza preponderante di queste scenette da varietà, che potrebbero avvenire ovunque (forse un omaggio al genere dei precedenti interessi critici dell’autrice), anche l’ambientazione in fondo rimane generica, lasciando sfumare l’atmosfera tipica del luogo. Così si è sprecato uno degli elementi potenzialmente più suggestivi del libro. Peccato.